martedì 19 novembre 2024

Dischi importanti: Violent Femmes - Halloweed ground

Corri, corri, corri, poi ogni tanto ti fermi un attimo e dici: ecco. Ecco il senso, ecco il big bang, ecco perchè. È che ci si scorda, tutto qua. Troppa roba per la testa e troppo poca testa per tutta la roba. Vieni a sapere che Halloweed ground ha quarant'anni e dici no, dai, non scherziamo. E ti torna in mente tutto. Che poi non è che sia questo gran che. Cioè, no, non dico che Halloweed ground non sia fondamentale, dico solo che, nel grande schema dell'universo, l'epifanico effetto che ha avuto su di me questo disco dei Violent Femmes (quei tizi di Milwaukee che hanno elevato il buskeraggio ad avanguardia) è sicuramente irrilevante. Del resto, questo si può affermare a proposito di parecchie cose. Però: la somma di un fantastiliardo di cose irrilevanti non potrebbe dare come risultato una - seppur infinitesimale - cosa rilevante? Chi lo sa. Magari è proprio così, e la sezione di Black girls in cui succede di tutto (dallo scacciapensieri ai giocattoli, con John Zorn a briglia sciolta) non potrebbe essere stata determinante nel forgiare le meraviglie del creato? Boh, vabbè, a me ha cambiato la vita. Sì, lo so, lo dico di tante cose, va bene, sono stato fortunato. In un momento in cui una delle mie varie stelle polari (chi ha detto che ce ne debba essere una sola?) era l'ammerika “alternativa”, questi arrivavano cantando inni cristianeggianti à-la-punk (Jesus walking on the water) e donavano una sfumatura epica al cuore nero della campagna in miseria (Country death song). L'energia emanata è talmente contagiosa che te ne freghi di quello che canta quel mattacchione di Gordon Gano: ha comunque ragione lui. Per farmi del male ho cercato sul web recensioni, impressioni ed elucubrazioni su Halloweed Ground e ho trovato di tutto: viene definito “divisivo”, “capolavoro”, “razzista”, “meglio del primo”, “peggio del primo” e via sproloquiando. A un bel momento non ci ho capito più niente e ho fatto l'unica cosa sensata: l'ho riascoltato. Scrivere di musica è come ballare di architettura, no? Perfetto. Fin troppe volte ci si fa intortare (me compreso, ovvio) da parole, accostamenti, carriole di hype. Per tutti c'è stato un tempo in cui le cose succedevano e basta (indicativamente in gioventù) e quel tempo ce lo si porta dietro fino alla fine. C'è chi si ferma lì senza accorgersi di essere un inguaribile nostalgico. C'è chi rinnega tutto “perchè bisogna andare avanti”. C'è chi continua a cercare le stesse sensazioni, a volte invano e a volte no. Fatto sta che - e ora bisogna che stringa perchè non so più dove voglio arrivare - una delle sei-sette canzoni che ogni tanto mi vengono inconsapevolmente in mente tormentone-style è un pezzo di Halloweed Ground: I know it's true but i'm sorry to say. Non so perchè e son contento di non saperlo: per amor di statistica, tra le altre ci sono Just like heaven (Cure), Talk about the passion (R.E.M.), Reel around the fountain (Smiths) e, insomma, i conti pur inconsciamente tornano. E adesso chiedo scusa ma riprendo l'ascolto, prima che sia troppo tardi.

martedì 5 novembre 2024

I'm a loser, baby

Come elettore di centrosinistra sono abituato a perdere. Anche quando vinco. Già il fatto di dover sempre votare per il “meno peggio” è una sconfitta. La linea di demarcazione fra servizio pubblico e potere personale mi appare sempre più sfumata: forse mi sono svegliato tardi? Boh, mi sa invece che sto ancora dormendo, sognando imperterrito un mondo più “giusto”. Il problema è che quel che è  “giusto” per me non lo è per te, e qui casca il povero asino. L'idea che la storia (perlomeno quella occidentale) sia stata un lungo viaggio verso la conquista dei diritti universali è oramai decaduta a causa di un revisionismo figlio della paura incontrollata di perdere la terra da sotto i piedi (ovviamente i miei, dei tuoi chi se ne frega). La crisi climatica? A seconda della convenienza si attribuiscono le colpe a tizio o a caio (spoiler: la colpa è, banalmente, di tutti). La crisi economica? Idem. I fenomeni migratori vengono trattati come un sintomo (e quindi, vai giù duro di antibiotico) e non ci si sbuccia per fare una bella diagnosi come si deve. Diagnosi che forse porterebbe a delle sorprese, tipo che non di patologia si tratta bensì di cura per una società vecchia e malata. Istruzione? Educazione? Libertà di espressione? Non pervenute, o meglio - anche qui – tirate in ballo solo per questioni di comodo. In questo quadro desolante (perlomeno nella mia testa) arrivano LE ELEZIONI AMERICANE, spettacolo quadriennale che mi rammenta con tenerezza i momenti in cui ci si illudeva fossero veramente importanti per tutto il globo. E invece - oplà – grazie alla globalizzazione abbiamo scoperto che l'occidente è minoranza e che, tutto sommato, queste consultazioni sono importanti ma al pari di mille altre robe. Detto questo, richiamando appunto le mie inclinazioni diciamo “progressiste” è chiaro che non potrò mai essere contento in caso di affermazione dell'amico Donald, non foss'altro per le posizioni apertamente pro-aborto dell'amica Kamala. Battaglia di facciata per raccogliere consensi? Boh, fra questa e quella di costruire un bel muro per tenere lontani i migranti cattivi preferisco di gran lunga la prima. In fin dei conti, si vota anche per quello in cui si crede, no? Però mi sa che sta proprio qui il punto; c'è più gente che crede in qualcos'altro. Il futuro non esiste più, quindi si persegue la soddisfazione immediata, fast-food style. Sarà un bene? Sarà un male? E chi se ne frega. Io ultimamente penso spesso allo striscione del Pistoia Basket con scritto: non puoi vincere, al massimo puoi segnare più di noi. Amen.

mercoledì 30 ottobre 2024

Èmotivo

Nell'anno del trentennale un piccolo EP dei Jean Fabry registrato da Duna l'anno scorso. A parte il mix "folk" di Spalàta (tornata tristemente di attualità) due pezzi nuovi: Èmotivo e La sonda lambda. Il primo un rocksteady lento e minimale (sì, vabbè, diamo poi sempre dei nomi alle cose anche quando non serve) pieno di parole che a prima vista non dicono niente ma probabilmente avevano originariamente l'intenzione di essere autobiografiche per poi perdersi in calembours da quattro soldi tanto per cantare. Fondamentale Giulio alle teste di moro. Il secondo pezzo ha a che fare con i segnali (spesso inascoltati) che il nostro organismo ci manda quando l'età avanza. Sul finale, la puerile interpretazione di una intelligenza artificiale in modalità "sono più brava di voi". Bel riff rock anni settanta eseguito dal basso del sindaco Molinari, che è sempre più avanti di tutti (e infatti i settanta li ha già da un pezzo). Dopo i regolamentari e i rigori, cosa resta dei Jean Fabry? Non si sa, si vedrà.

giovedì 12 settembre 2024

Dischi importanti: Portishead - Dummy

Una volta, da queste parti, erano tutte chitarre. Da quelle fricchettone a quelle grattuggiate, fino a quelle che ululavano dentro e fuori dagli amplificatori. Qualche sporadica tastiera, pianoforti da ballad, batteria elettronica dimenticata in soffitta (ma che tornava buona in assenza di batteristi, perchè quelli che c'erano erano tutti o metal o funky). Era difficile per quelli come me avvicinarsi all'hip-hop, ai campionamenti, alle atmosfere -aaaargh!!!- jazzate, a mondi apparentemente alieni e incomprensibili. La prima volta che sentii i Portishead fu alla radio, credo Rai: misero su Sour times e io - raffinatissimo conoscitore di musica - li accostai incomprensibilmente a Tom Waits, anzi addirittura a qualche maldestro imitatore. Non so perchè e tuttora non l'ho capito, fatto sta che però nel giro di poco le cose cambiarono, fuori e dentro di me. Le chitarrazze grunge erano diventate il mainstream, c'era nell'aria un rigurgito di magniloquenza rock e un certo tipo di mondo andò in mille pezzi assieme al povero Kurt Cobain. Era il momento di aprirsi, o chiudersi per sempre. La mia fortuna fu Dummy. Senza rinnegare le mie radicate passioni allargai un filo gli orizzonti, aiutato comunque dal retrogusto indie-nerd del combo di Bristol: Barrow era uno smanettone creatore di mondi, Utley il perfetto chitarrista per film di spionaggio di serie Z e Gibbons una sirena dall'oltretomba. Sdoganarono tutto un mondo sotterraneo che pareva scomparso e invece era sempre lì (IL THEREMIN!!!) appaiandolo ai sampler e a ritmiche street più consone ad un bel flow incazzato, più che ad una novella Billie Holiday raggomitolata al microfono come per scomparirci dentro. Fondamentalmente roba notturna, anche se forse mi faccio fuorviare dalle mie personali esperienze. Ricordo con la pelle d'oca il festival di Reading 1995, quando nonostante non fossero in cartellone erano la colonna sonora della tendopoli festivaliera nel buio albionico. Dummy fu un successo trasversale, forse proprio per aver sdoganato certe atmosfere apparentemente meno "ribelli" e provocatorie, dando i natali al famigerato trip-hop, etichetta buona per gli aperitivi ma che fondamentalmente era riconducibile esclusivamente ai lavori di un gruppo di artisti di Bristol dei primi anni novanta (Massive Attack, Tricky e - appunto - Portishead). Dentro al disco si trovano - a pacchi - creatività, anticonformismo e tempeste emotive che il grosso del "rock" contemporaneo aveva perso per strada già da mo'. Lo scratch di Strangers (parossistico dal vivo grazie a DJ Andy Smith), i blues da aurora boreale Wandering star e Roads, la quasi-hit Glory box: il disco è un viaggione dall'inizio alla fine. Ah, anche i coevi remix sono uno più bello dell'altro. Come? È roba per depressi? Beh, a me sembra uno splendido antidepressivo, invece. E fa persino ballare, cosa testata personalmente durante le tre volte in cui ho avuto la fortuna di vederli dal vivo. Dopo Dummy, un secondo album altrettanto riuscito (ma senza effetto sorpresa) e un terzo inaspettato sia come tempi (ormai non ci sperava più nessuno) che come contenuti (altri mirabolanti universi). Intanto, la stella vagabonda continua imperterrita a brillare.
 

martedì 3 settembre 2024

Dal caldo al cardo

Un bel giorno, mentre età biologica ed età anagrafica se ne stavano andando allegramente a braccetto verso la loro destinazione naturale, mi sono reso conto che tempo e energia si stavano esaurendo. Che fare? Per il bene dell'umanità, sono andato in ferie. Il cervello rigetta questo vocabolo, lusso per pochi, allora lo riformula come "desiderio di conoscenza per migliorare ed essere sempre più utile" oppure (meglio) "necessità di staccare un attimo prima di sbroccare". E allora via! Usufruendo di un inquinante volo low coast (low fino ad un certo punto, oramai) si possono inseguire mete favoleggiate in gioventù ma mai raggiunte, tipo la Scozia. Intanto, va subito detto che passare anche solo sei giorni in un clima diverso da quello dell'estate 2024 in Romagna ha ampiamente giustificato le cifre assurde spese per viaggio, vitto, alloggio, amenità varie. Eccomi quindi ad Edimburgo dopo essermi documentato (cioè guardando, ehm, documentari) sul sanguinario e spietato passato di queste latitudini: niente di clamorosamente originale, la solita mattanza che tuttora si verifica in alcune sciagurate terre in nome del dio baiocco e dell'insensatezza. Ah, oltre a ciò ho scoperto che il simbolo nazionale scozzese è il cardo selvatico. Bella Edimburgo, anche se ovviamente l'attuale trend fa assomigliare tutte le città votate al turismo di massa: stesse multinazionali, stessa capitalizzazione delle "cose da vedere" e stessa immagine da cartolina ad uso e consumo del parallelepipedo che abbiamo sempre fra le mani.
McClusker The Busker

Ad esempio: essendo io appassionato di musiche varie ed eventuali, ho sempre idealizzato le cornamuse ma, dopo averle sentite ad ogni angolo di strada (e sempre pro turisti) un po' di smago mi è venuto. E' come quando a Roma vedi i centurioni fuori dal Colosseo per le fotoricordo o a Napoli ti cantano 'O sole mio ad ogni piè sospinto. McClusker The Busker si è permesso di suonare Jingle Bells in agosto. Dove stanno LE ROBE VERE? Forse meglio non saperlo e rifugiarsi nella più negletta delle materie: la geografia. Son sempre più convinto che le attuali catastrofi climatiche o umanitarie andrebbero spiegate a noi popolo guardando tutti assieme una bella cartina. Vedete? La morfologia di questa zona porta naturalmente gli abitanti ad allontanarsene, questa zona è più ricca di risorse dell'altra, questo tratto di mare viene attraversato in questo punto preciso, questa catena montuosa fa da barriera per le masse di umidità, eccetera, eccetera. Geograficamente parlando, la Scozia (quel poco che ho visto) è molto stimolante e la stessa Edimburgo passa dal mare ai monti nel giro di poche miglia. Complice una minaccia di pioggia (maledetta dipendenza dai siti meteo!) un viaggio in autobus si è dilungato (per paura appunto di scendere e beccarsi due gocce) fino alla casuale fermata di Portobello Beach facendomi intravedere una spiaggia nordica e dandomi così modo di apprezzarne le crude qualità, tipo Lido Adriano (RA) in gennaio.
Portobello Beach

Di ritorno in città, ci si è spinti in cima all'ermo colle Arthur's Seat per farci strapazzare da un vento tipo K2.
Arthur's Seat








Poco più tardi ci siamo ritrovati a Modigliana (FC) ma -oops- era il pittoresco quartierino di Dean Village.

Dean Village









La natura, nonostante ingabbiata e deturpata, continua dettare legge: cosa molto evidente sulle Highlands, viste di striscio con un fantozziano (ma funzionale) viaggio organizzato. Fa comunque senso sapere che le poderose alture attorno a Glencoe erano poco tempo fa ricoperte da alberi, vittima del disboscamento generatore di facili profitti. Triste. Ad ogni modo, sulle note di Birds of a feather di Billie Eilish (non c'entra niente, ma si sentiva dappertutto e comunque la nostra eroa ha origini scozzesi) ecco il prospetto di sintesi:
1) post-Brexit i prezzi si sono alzati rendendo difficile la quotidianità (e gli scambi internazionali)
2) i mostri di Loch Ness siamo noi
3) un paese che come simbolo ha il cardo merita rispetto.



lunedì 22 luglio 2024

Taylor, dì qualcosa di sinistra (o di centro, o di destra, quello che vuoi)

E così, ci resta solo Taylor Swift. O, in altre parole: aiutaci, Taylor Swift, sei la nostra unica speranza. Come siamo giunti a questo? Beh! Intanto non dimentichiamo che, ad esempio, Ronald Reagan in gioventù era stato un attore (magari non una superstar, okay, ma se lo ricordavano bene, ecco), Berlusconi cantava sulle navi, Grillo e Zelensky facevano i comici, Cicciolina... vabbè, insomma ci siamo capiti. Però per la divina Taylor quel che si prospetta è addirittura il ruolo della salvatrice del mondo libero: e Taylor fai 'sto benedetto endorsement, e Taylor cosa ne pensi del conflitto israelo-palestinese, e Taylor di qua, e Taylor di là. No, ma dico, seriamente: c'è fior di commentatori che aspetta una sua mossa, anche perchè, obbiettivamente, sposterebbe opinioni, voti e pure l'asse terrestre, mi sa. E lei zitta. Niente. Continua a portare in giro per il mondo il suo circo, a riempire gli stadi, a fare i miliardi e ad essere famosa-perchè-famosa. Ma per ora nient'altro. Secondo me aspetta il momento giusto, la furba. La cosa bizzarra è che non ci vedo niente di strano. Il consenso e il potere, ora più che mai, percorrono la stessa strada. E adesso basta, se no mi viene su una botta di anarchia e rischio seriamente di dire qualcosa di sensato.

sabato 29 giugno 2024

Daffo-dils!

Quanti dischi. Quanti dischi ho ascoltato e non è ancora finita, come diceva quello. Alla fine, cosa rimane di tutti questi ascolti? Le canzoni, ecco cosa rimane. Ma non tutte, ovviamente. Ad ognuno restano le sue, mi vien da dire, per svariati e inspiegabili motivi. Quindi, come funziona? Posto che oramai nella mia testa non credo ci sia più possibilità di incamerare rivoluzioni (tra l'altro in giro non ne vedo, ma può darsi sia la vista balenga), funziona così: leggo qua e là, mi faccio intortare, trovo in giro il materiale e passo all'ascolto. A volte, dopo dieci secondi mi viene la nausea e passo ad altro (ebbene sì, skippo anch'io a quasi sessant'anni): alcuni dei miei dischi preferiti sono passati attraverso questa fase (pochi pochi, ma alcuni clamorosi sì). A volte, infatti, qualcosa mi spinge a continuare e continuo. Così facendo ho scoperto belle cose, alcune mi hanno anche accompagnato per periodi più o meno lunghi, ma - torniamo a bomba - in realtà quello che fa fare il salto di qualità è... quel pezzo lì. Proprio quello. Una volta trovato, mi fa vedere tutto il resto del lavoro sotto una luce diversa e scatena il fan interiore (a quel punto corro il rischio di trascinarmi per anni perdonando montagne di dischi inutili, ma tant'è). Inciso: uno degli altri motivi per cui un gruppo mi incuriosisce sono le cover che fa. Di recente mi sono imbattuto nell'ennesimo collettivo di giovani-inglesi-che-fanno-pop-sofisticato, gli English Teacher. Ho visto che avevano coverizzato gli Smiths e gli LCD Soundsystem e mi son detto: dài? Ho messo su il loro nuovo album This could be Texas e dai primi pezzi mi è sembrato subito interessante, eppure... Ma insomma, lo sbuzzo c'è, vuoi che non abbiano fatto una canzone di quelle che dico io? Avanti con l'ascolto. Sì, bello, ok... mi sto distraendo, ma improvvisamente BOOM! Traccia 9, Nearly daffodils. Ripeto ciò che ho scritto all'inizio: non c'è una logica, i criteri per cui una serie di suoni e rumori entra sottopelle sono totalmente soggettivi e stop (anche se qui sarebbe interessante aprire una parentesi sulle produzioni ipercommerciali, iperderivative e di megasuccesso, non lo farò). Analisi a posteriori: il giro principale ha un bel cambio che sposta, l'armonia in capo al basso è ad un passo dal tecnicismo ma avercene, la chitarra fa un bel lavorino new wave, il modo in cui la funambolica Lily Fontaine declina il ritornello è notevole (in particolar modo lo stacco fra "daffo" e "dils"), ad un certo punto mi ricordano i R.E.M. di Murmur e subito dopo un disco prog del 1972, poi... va beh, basta, bravi.

domenica 16 giugno 2024

Non sai neanche cosa sia, te, il punk

A causa degli oramai sempre più frequenti cortocircuiti spaziotemporali, è accaduto che io e Pappi fossimo in Piazza Maggiore a Bologna al concerto dei CCCP. Dimenticavo: nel 2024 e non nel 1984, dettaglio non trascurabile. Ora, al netto delle polemiche sul si-sono-venduti, nei-luoghi-pubblici-solo-eventi-gratis, eccetera, mi sono divertito ed è stato un piacere vedere tanta gente onorare non tanto le persone sul palco, quanto QUELLE CANZONI. Non pensavo sarei mai tornato a sballonzolare pigiato in mezzo ad un carnaio simile (età media più bassa di quel che pensavo, tra l'altro) ma, ripeto, è stato tutto molto divertente. Compreso l'accenno di rissa con uno dei soliti che si infilano davanti all'ultimo momento, in balìa di una danza scomposta e parecchio molesta nei confronti dei vicini. Al culmine della tensione, dopo qualche spinta e un intervento moderatore da parte della security, il tizio di cui sopra ha abbozzato una (peggiorativa) giustificazione rimproverando i presenti di non aver colto lo spirito di un concerto punk. A questo punto Pappi ha proferito le seguenti parole: "Non sai neanche cosa sia, te, il punk". Al di là del fatto che Pappi secondo me aveva completamente ragione, mi sono posto il problema: e io lo so cos'è, il punk? Flashback: due settimane prima, alla mostra dei Jean Fabry a Fusignano, il benemerito Federico Savini ha condotto una stimolante serata sulla musica "outsider" romagnola, distinguendola bene da quella alternativa o indipendente. Ci ha proposto di suonare il nostro pezzo "Il punk fa la fine del blues", una roba ispirata alla terza o quarta generazione di musicisti punk, gente che in effetti di punk aveva solo l'apparenza o poco più. Quindi? Una volta stabilito cosa non è punk, si tratta di stabilire cosa invece lo sia. E non vale dire "tutto il resto". Posso provare a dire cosa sia per me, il punk. Indicativamente qualcosa di autentico, che tenta di alzare l'asticella espressiva con i (pochi) mezzi a disposizione. Può essere contemporaneamente empatico e respingente, e se c'è provocazione non è mai fine a se stessa (se no si lambisce la goliardia, che, seppur valida, è un'altra cosa). Il punk non si può confinare in un genere o in uno stile, è più che altro un modo di porsi (anche brusco) nei confronti degli altri cercando un contatto, uno scambio, una relazione. Non è tanto antiaccademico, quanto piuttosto contro la supposta superiorità dettata esclusivamente dal curriculum o dalla condizione socio-economica. Tutti possiamo essere punk, anche solo per un momento. È una questione di qualità.

domenica 9 giugno 2024

Zira zira...

Il giorno 19 maggio dell'anno 2024, nello spazio antistante al Centro Culturale Il Granaio di Fusignano (paesone della Bassa Romagna), gli astri della piccola galassia Jean Fabry si sono allineati per dare vita all'esibizione "Zira zira...", evento di chiusura della mostra "Trent'anni di zavaglio". Radunati amici, parenti e semplici conoscenti, si è proceduto come sempre: un occhio a testi/spartiti/scaletta e un occhio al cielo sperando che ce la mandasse buona. In verità, in questa occasione, il cielo di cui sopra è stato estremamente benevolo perchè ha consentito lo svolgimento di una performance particolarmente ispirata, snocciolatisi nel corso di circa due ore e mezzo senza cedimenti nella (apparente) soddisfazione generale.

Con la benedizione del busto di Zanardi (opera di Luca Tarlazzi collocata nelle vicinanze, omaggio al genio di Paz), il giro è iniziato con una canzone del Jean Fabry originale (Sto girando un po'), seguita da Spalàta (in ricordo della disgraziata alluvione di un anno fa) e da una corposa sezione Capra & Cavoli (il nostro fortunato alter ego "per bambini"). Boccacce in libertà, romagnolismi, filastrocche antimilitariste e un recupero dal passato remoto: quella L'egoland durante la quale il Marlo ha distribuito mattoncini colorati con la moraletta finale di unirli tutti assieme perchè da soli servono a ben poco. Finale di segmento con la quantomai preziosa apparizione del violinista-erborista Marco Cavina.

Nelle sapienti mani (e orecchie) del fonico Alex Ferro si è passati alle deferenti cover, pezzi di artisti che nel bene e nel male ci hanno indicato la via: Skiantos, CCCP (la nostra versione di Io sto bene è stata così efficace che i titolari del brano hanno deciso di non eseguirla due sere dopo in quel di Bologna, almeno credo sia questo il motivo) e - con l'ausilio dell'Ing.Ragazzini - Jonathan Richman, di cui abbiamo sciorinato quel caposaldo della naiveté che è Ice cream man, con tanto di campanelli, coretti e reprise. Non contenti, ne abbiamo fornito anche la versione tradotta Arriva Bomba, omaggio allo spacciatore di gelati e bomboloni in Apecar nella Russi (altro paesone della Romagna, in questo caso non Bassa) che fu, ricordo indelebile delle generazioni pre-modernità. Ovviamente i campanelli in questo caso sono stati sostituiti da trombette-clacson e alla fine non sapevamo più se ridere o piangere di gioia (gli astanti annichiliti hanno parso gradire, o forse erano semplicemente sotto shock). Approfittando della presenza dell'Ingegnere siamo passati al segmento "Linguàza", denunciando come sempre i furti di brani originali romagnoli da parte delle divinità anglo-americane (per pareggiare i conti, quella Oh my Romagna che pare aver pesantemente ispirato la versione italiana del Maestro Casadei).

A questo punto, i "classici" (va beh, si dice così) del punk mentale con (tra le altre) le innumerevoli versioni di Stringi le viti di tanto in tanto e - richiamato al proscenio il Cavina - un versione parecchio "d'avanguardia" di Voglio scappare con il Circo Bidone. Dopo gli immancabili Pappi dei pioppi, spazio al Sindaco Molinari per la sua versione dialettale de La Balilla, con tanto di Stefano Pelloni (non quello, l'altro) per rinforzare la parte corale alpino-gregoriana.

Nel momento di massimo coinvolgimento emotivo, conclusione con quella E zir d'e clomb a cui torniano immancabilmente ogni volta e stop. Qualche ardimentoso ha chiesto dei bis e con un ultimo sforzo (e ovviamente molto piacere) sono arrivate Ghiandole, Mercatone e Parallelo. Fine mostra e fine spettacolo, ad essere onesti probabilmente l'ultimo o comunque (tanto per seguire le mode) il primo degli ultimi. Lunga vita al punk mentale e arrivederci in qualche altro universo. Tempo e luogo un optional.






martedì 4 giugno 2024

Lettera ad uno chansonnier romagnolo


 

 

 

 

 

 

 

 

Caro Giovanni,

facciamo finta per un momento che esista un aldilà, dove tu non abbia niente di meglio da fare che leggere i blog sfigati come questo: sono passati trent'anni dal nostro fugace incontro e in tutto questo tempo forse ogni tanto ti avranno fischiato le orecchie, perchè - insomma - hai cambiato la vita a me e agli altri miei compagni di avventura, tant'è che abbiamo addirittura "preso in prestito" il tuo nom de plume per andare in giro a cantare canzoni, sicuramente differenti da quelle che cantavi tu ma figlie dello stesso fuoco di cui ardevi con così tanta passione. Da quando hai cambiato universo, abbiamo avuto la faccia tosta di utilizzare, oltre al nome Jean Fabry, anche la tua voce e le tue immagini recuperate da antichi nastri magnetici. A volte mi sento come se ti avessimo mancato di rispetto, mentre in altre occasioni mi gonfio di orgoglio per aver fatto sì che la tua storia (o comunque quel poco che ne sappiamo) non sia andata perduta come quella dell'infinito numero di sconosciuti accecati dalla fatale luce dell'arte e dello spettacolo. In fin dei conti ti importava esibirti e quello hai fatto, fin quando hai potuto. Un po' come noialtri, che stiamo ancora qua a fare i pagliacci in un circo più grande di noi e ci siamo pure dimenticati il perchè. Per tentare di ricordarcelo, questo antico perchè, abbiamo messo in piedi la nostra impalcatura più instabile e velleitaria: una mostra, in occasione dei trent'anni di - chiamiamola così - attività. Grazie al Comune di Fusignano, che ci ha messo a disposizione quel piccolo ma magico spazio che è il Centro Culturale Il Granaio, abbiamo raccontato con immagini, oggetti, parole, suoni e visioni il nostro minuscolo percorso di gruppo musicale "alternativo". Durante le due settimane di maggio che hanno visto la mostra in funzione, la nostra famiglia musicale "allargata" ha condiviso per l'ennesima volta le tante bislacche peripezie prima vissute di persona e poi immagazzinate in modo fantasioso nei meandri delle nostre menti sempre meno affidabili. Proprio da Fusignano tutto è partito, dalla macchina in cui io e Pappi sentivamo i CCCP; poi è arrivata l'impresa del film Torbido Blok, con la sua bicicletta gialla ancora viva e vegeta; nel fatidico 1994 abbiamo imbracciato gli strumenti, fra cui la chitarra-che-pare-fosse-di-Vandelli; durante le prove è saltato fuori E zir d'e clomb; ti abbiamo incontrato al Pavaglione e ci siamo scambiati gli indirizzi dopo che io e Marlo siamo scesi dal nostro primo palco; abbiamo visto il Circo Bidone; abbiamo girato per concorsi e rassegne con vari nomi prima che Giulio ci facesse capire che il nome giusto per noi era proprio il tuo; grazie a Cantalupi abbiamo conosciuto gli universi paralleli; abbiamo deciso di suonare punk mentale; abbiamo portato in scena Zavaglio generale per non soccombere al zavaglio generale; siamo stati al Mataluna per raschiare assieme il fondo del barile; abbiamo registrato e pubblicato un disco chiamato Rotoballe; abbiamo conosciuto Radio NK con cui abbiamo omaggiato sia Jonathan Richman che il dialetto romagnolo; abbiamo cominciato a frequentare il Dunastudio per dare forma alle nostre mattane; ci siamo trasformati nei Capra & Cavoli per suonare il punk mentale assieme ai bambini; siamo stati innumerevoli volte a Cervia sperimentando sul palco del Festival delle arti; abbiamo candidato Molinari a sindaco; siamo andati a Parigi; siamo tornati da Parigi; eccetera, eccetera. Nel periodo della mostra abbiamo suonato al Brainstorm, abbiamo coinvolto una persona seria come Federico Savini per farlo parlare di Lorenz e dell'Artigiana Salumi, ci siamo riguardati Torbido Blok e in conclusione abbiamo ri-suonato, stavolta fuori dal Granaio. Di quest'ultimo spettacolo scriverò prossimamente. Non mi resta che salutare e, per l'ennesima volta, ringraziarti. Ciao Giovanni, perdona la nostra incoscienza. In cuor mio penso tu possa capire.





 

lunedì 29 aprile 2024

Gli occhi di Kristin

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ciò che balza subito agli occhi sono - appunto - gli occhi. E non è una questione estetica, si badi bene: sono occhi spiritati ma tranquillizzanti, roba che a Salem forse non l'avrebbe passata liscia. Quando poi da quel corpo minuto esce quel rantolo, così sgraziato e così intonato, mi rendo infine conto che sono davvero al cospetto di Kristin Hersh, uno dei pilastri della musica alternativa (si chiamava davvero così, giuro) dei miei tempi, ancora viva e propositiva come non mai. Prima nel ricordo del perdente perduto Vic Chesnutt, poi con i suoi pezzi che paiono tutti nati nello stesso medesimo istante, figli di qualcosa che non è dato capire ma si avverte come familiare e "spostato" al tempo stesso. Gratis in un'officina di biciclette, ecco dove ho finalmente visto Kristin Hersh, dopo che nel 1995 al Reading Festival l'avevo intravista - rasata a zero, con i Throwing Muses - in uno schermo gigante e nulla più, perchè le bottiglie di birra che avevo con me mi obbligarono a fare dietrofront all'ingresso dell'area concerti. Ogni cosa a suo tempo, comunque: grazie ai marchigiani del Fuori! Festival ho avuto la fortuna di poter ascoltare un piccolo pezzo di storia musicale contemporanea, coi suoi arpeggi fra gli Appalachi e Bert Jansch, la sua voce fra Edith Piaf e Kurt Cobain (questa mi è venuta così, chiedo scusa a tutti) e le sue canzoni fatte di vita, colori, pensieri e un po' di sano rumore.

Gli occhi di Hieronymus

La mia passione per Hieronymus Bosch risale agli anni novanta del secolo scorso, quando sposai pure io una serie di teorie secondo le quali il Medioevo a) era sottovalutato b) non era mai finito c) non era mai esistito. Al netto di queste pinzellacchere, va detto che era destino che prima o poi cascassi nella trappola del fiammingo psichedelico perchè ho sempre avuto un debole per i visionari virati al grottesco (dai fumetti, al cinema, alla musica, eccetera). E allora vai a cercare i dettagli più assurdi per perdercisi dentro, complice il mistero che circonda l'uomo e le sue opere. Fino a questo mese non ne avevo mai vista una dal vero e forse non l'ho ancora fatto, perchè il Laatste oordeel drieluik (Giudizio finale) al Groeningemuseum di Bruges è attualmente di dubbia attribuzione. Il primo aprile (ovviamente) ero comunque in loco e un brividino l'ho provato. Anche il Belgio fa parte dei posti che non esistono, ma tutto sommato l'ho trovato abbastanza realistico, con le sue patate, il suo cioccolato, le sue bande dessinées e - appunto - i suoi maestri dell'arte figurativa (da Magritte a Ensor, e ho detto poco). Da vecchio sto continuando a cavarmi qualche curiosità anche se ovviamente i miei occhi non vedono più quel che vedevano (o credevano di vedere) tempo fa. Dio solo sa cosa vedeva Hieronymus: per fortuna era in grado di fissare per l'eternità su delle tavole di legno qualcosa che forse non capiremo mai ma che, proprio per questo motivo, è ancora in grado di scatenare emozioni e voglia di andare oltre il malefico conformismo che ci circonda.

lunedì 15 aprile 2024

Trent'anni di zavaglio

 Il 15 aprile 1994 con la performance de I pappi dei pioppi (la band) a Borgo Fratti cominciò ufficialmente la nostra avventura. Dato che siamo ancora qui (più o meno allo stesso livello di allora) abbiamo pensato di celebrare (in)degnamente l'evento con la pubblicazione sulle varie piattaforme online dei nostri album Fruga nel rusco, La televisione non esiste e Celacanto. Man mano verrà reso disponibile anche il resto (è una minaccia). Oltre a ciò...