Una volta, da queste parti, erano tutte chitarre. Da quelle fricchettone a quelle grattuggiate, fino a quelle che ululavano dentro e fuori dagli amplificatori. Qualche sporadica tastiera, pianoforti da ballad, batteria elettronica dimenticata in soffitta (ma che tornava buona in assenza di batteristi, perchè quelli che c'erano erano tutti o metal o funky). Era difficile per quelli come me avvicinarsi all'hip-hop, ai campionamenti, alle atmosfere -aaaargh!!!- jazzate, a mondi apparentemente alieni e incomprensibili. La prima volta che sentii i Portishead fu alla radio, credo Rai: misero su Sour times e io - raffinatissimo conoscitore di musica - li accostai incomprensibilmente a Tom Waits, anzi addirittura a qualche maldestro imitatore. Non so perchè e tuttora non l'ho capito, fatto sta che però nel giro di poco le cose cambiarono, fuori e dentro di me. Le chitarrazze grunge erano diventate il mainstream, c'era nell'aria un rigurgito di magniloquenza rock e un certo tipo di mondo andò in mille pezzi assieme al povero Kurt Cobain. Era il momento di aprirsi, o chiudersi per sempre. La mia fortuna fu Dummy. Senza rinnegare le mie radicate passioni allargai un filo gli orizzonti, aiutato comunque dal retrogusto indie-nerd del combo di Bristol: Barrow era uno smanettone creatore di mondi, Utley il perfetto chitarrista per film di spionaggio di serie Z e Gibbons una sirena dall'oltretomba. Sdoganarono tutto un mondo sotterraneo che pareva scomparso e invece era sempre lì (IL THEREMIN!!!) appaiandolo ai sampler e a ritmiche street più consone ad un bel flow incazzato, più che ad una novella Billie Holiday raggomitolata al microfono come per scomparirci dentro. Fondamentalmente roba notturna, anche se forse mi faccio fuorviare dalle mie personali esperienze. Ricordo con la pelle d'oca il festival di Reading 1995, quando nonostante non fossero in cartellone erano la colonna sonora della tendopoli festivaliera nel buio albionico. Dummy fu un successo trasversale, forse proprio per aver sdoganato certe atmosfere apparentemente meno "ribelli" e provocatorie, dando i natali al famigerato trip-hop, etichetta buona per gli aperitivi ma che fondamentalmente era riconducibile esclusivamente ai lavori di un gruppo di artisti di Bristol dei primi anni novanta (Massive Attack, Tricky e - appunto - Portishead). Dentro al disco si trovano - a pacchi - creatività, anticonformismo e tempeste emotive che il grosso del "rock" contemporaneo aveva perso per strada già da mo'. Lo scratch di Strangers (parossistico dal vivo grazie a DJ Andy Smith), i blues da aurora boreale Wandering star e Roads, la quasi-hit Glory box: il disco è un viaggione dall'inizio alla fine. Ah, anche i coevi remix sono uno più bello dell'altro. Come? È roba per depressi? Beh, a me sembra uno splendido antidepressivo, invece. E fa persino ballare, cosa testata personalmente durante le tre volte in cui ho avuto la fortuna di vederli dal vivo. Dopo Dummy, un secondo album altrettanto riuscito (ma senza effetto sorpresa) e un terzo inaspettato sia come tempi (ormai non ci sperava più nessuno) che come contenuti (altri mirabolanti universi). Intanto, la stella vagabonda continua imperterrita a brillare.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento