lunedì 30 settembre 2019

Lettera a Greta Thunberg















Cara Greta,
ho visto quanto eri incazzata alle Nazioni Unite e mi son preso paura. Ce l'avevi proprio con me e con quelli della mia generazione e ho capito che non ci perdonerete mai e ce la farete pagare. Cosa vuoi che ti dica? Hai ragione, avete ragione. Ricordo con tenerezza quando votai per la prima volta e apposi la crocetta sul simbolo del Sole che ride: altri tempi, c'era appena stata Chernobyl (che adesso è solo un telefilm) e la paura delle scorie nucleari aveva mobilitato le coscienze. La colpa era degli industriali cattivi e dei politici corrotti, bersagli facili negli anni ottanta hollywoodiani, quando non esistevano i toni grigi, le sfumature, i dubbi esistenziali: esistevano in musica, magari, e in qualche film d'essai che noialtri sfigati-alternativi correvamo a guardare in cerca di riferimenti culturali a noi affini, per sentirci dalla parte giusta della strada di periferia che avevamo cominciato fieramente a percorrere. Poi, i più fortunati di noi sono invecchiati (fuori e/o dentro) e nei tempi recenti, dopo anni di macchine a metano, di borracce ecosostenibili e di pellegrinaggi ai cassonetti della differenziata siamo finalmente arrivati qui: a guardare sconsolati proprio dentro a quei cassonetti, rimirando la stupidità umana al massimo del suo splendore, accontentandoci di trovare i rifiuti almeno dentro (anche se quasi sempre al posto sbagliato) e non al di fuori, come in attesa di astronavi aliene in cerca di reperti di una patetica civiltà sull'orlo dell'estinzione. Certo, che ci estingueremo. Succederà nonostante le trasmigrazioni su altri pianeti, succederà nonostante il raggiungimento della vita eterna (reale o virtuale) e il ginko biloba ci seppellirà tutti, prima di andarsene anche lui per poi tornare ciclicamente negli anfratti dello spazio-tempo, fermo eppur sempre in perpetuo movimento. Detto questo, fai bene ad avercela con noi e non badare a chi ti attacca dall'alto di una inesistente maturità aspettandoti al varco alla prima caduta, al primo errore umano, alle prime avvisaglie di trasformazione in caricatura. Ma chi se ne frega, come dicono quelli che si vantano delle proprie zozzerie ambientali: rimarrà nella irrilevante storia dell'uomo  le tua incazzatura di quel giorno, a perenne memoria della nostra imperfezione e inutilità.
                                                                       Melampo
                                                                      
                                                                                                      

domenica 15 settembre 2019

VENTICINQUE

Ogni tanto bisogna fare mente locale e riconoscere la fortuna che si ha. Essere nato in questo periodo storico, in questa parte del pianeta Terra, ha fatto sì che mi trovassi una sera di settembre dell'anno 2019 nella città di Forlì (Romagna, Italia) per celebrare i venticinque anni di attività dei Jean Fabry, il gruppo "musicale" di cui ho l'onore di fare parte. Venticinque anni fa era il 1994: Silvio Berlusconi ci mostrò quanto fosse facile passare dalle televendite al potere politico, il povero Kurt Cobain ci mostrò ancora una volta che soldi e successo non fanno necessariamente la felicità e internet era ancora fantascienza. In quegli anni chi era appassionato di musica poteva ancora giocare con i concetti di "mainstream" e "alternativo" e soprattutto si poteva ancora dichiarare pubblicamente che non ti piacevano i Queen senza essere linciati. Io, Pappi e Marlo eravamo già vecchi ma cominciammo a fare quello che i dettami del punk dicevano: tutti possono mettere su una band. E così fu. Sempre in quell'anno incontrammo il Maestro Giovanni Fabbri in arte Jean Fabry, che con il suo entusiasmo naif ci diede l'ultima spintarella ed eccoci ancora qua, dopo un quarto di secolo, a far finta di suonare. E' chiaro che, senza l'aiuto di tutti gli amici che ci hanno preso in simpatia lungo la strada, saremmo già tornati nei ranghi e non finiremo quindi mai di ringraziare sentitamente chi ha assecondato la nostra beata incoscienza. Detto questo, quello che è andato in scena ieri sera davanti ai Musei San Domenico è stato un evento - attenzione, partono le iperboli - epocale, irripetibile e commovente. Diamo i numeri: due ore e mezza di spettacolo, tipo i Cure o Vasco Rossi, davanti ad amici/parenti/perfetti sconosciuti con l'enorme apporto dei fonici delle Tre Civette che hanno dovuto fare i miracoli per farci sembrare quasi un gruppo vero e non il branco di sprovveduti che in realtà siamo; venticinque pezzi tratti da tutto l'arco della nostra "produzione" (riesumazioni preistoriche come Nero, La grande tavana, La liturena e un pizzico di Capra & Cavoli con Dove si nasconde il camaleonte); svariati momenti di "rilassatezza" (leggasi i soliti discorsi a vanvera con la solita complicità del pubblico). Sul palco con noi: l'immancabile Sindaco Molinari, che ha orgogliosamente proposto la sua versione della nostra Quant ridar più La Balilla in romagnolo; Miguel degli MM40, con il quale abbiamo duettato (!) su Come together (per i 50 anni di Abbey Road dei Beatles) e su Rotoballe; grande ritorno di Giulio al rullante selvaggio per spingere l'acceleratore verso lidi sempre più noise (abbiamo rispolverato addirittura Zavaglio generale, in versione tascabile ma pur sempre pregna di nessun significato); dulcis in fundo Mauro Cavalazzi al sax (ci siamo conosciuti giusto ieri grazie a Francesco, già colpevole di averci contattati per la serata) che si è esibito con noi in una incredibile (in ogni senso) versione di Ginko biloba, a dimostrazione che, nonostante tutto, il mondo ha ancora bisogno di punk mentale.

venerdì 13 settembre 2019

Vecchie glorie del rock locale

L'idea era quella di ricordare Muzak, il negozio di dischi che negli anni ottanta a Russi di Romagna divenne ben presto un salotto dove parlare di musica, cinema, libri e altre robe attualmente in via di estinzione. Con alcuni degli avventori storici abbiam messo su una serata musicale in cui ognuno faceva un po' quello che gli pareva: il Maestro Carnevali, per dire, ha eseguito all'ocarina una selezione di brani di Morricone; Frassi e Balducci sono andati su Neil Young, Simon & Garfunkel e via dicendo, Gilò ha fatto dei pezzi suoi (con sua sorella Gloria) più "Ho veduto" dei New Trolls su espressa richiesta di Deny. Quando quest'ultimo ha detto due parole sui tempi che furono, mi son cavato la voglia di accennare in sottofondo "Bad moon rising" dei Creedence poi, come al solito, mi son calato nella parte "alternativa". Assieme a Gello (sax) e Sintini (basso, contrabbasso, chitarra) siamo passati da "A vrebb t'foss aquè" (i Pink Floyd in dialetto romagnolo, provenienti dallo spettacolo Linguaza) ad un pezzo composto per l'occasione ("Bar Muzak", dove ho cercato di tornare indietro di trent'anni e al tempo immobile passato sulle poltrone del negozio), fino a spingerci a "L'avvelenata" di Guccini (il famoso "pezzo con le parolacce" che si metteva su di nascosto sui pullman delle gite parrocchiali), "Ottocento" di De Andrè (dove un malefico rospo in gola mi ha impedito di fare uno yodel come si deve) e - sacrilegio - "Smoke on the water" senza chitarra e con voce baritonale. Bella serata, nostalgia a go-go e curiosità suscitata in chi non aveva idea di cosa stessimo parlando. Sul "Carlino" ci hanno chiamati "vecchie glorie del rock locale" e mi son sentito di dover puntualizzare che magari vecchi sì, ma rock anche no. Bravetti, con la sua bella t-shirt "Punk mentale" (pezzo unico) ha applaudito convinto.