venerdì 30 novembre 2018

Dice

Dice: ci sono più malattie. Ma no, ci sono più diagnosi. Dice: sono aumentati i reati. Macchè, ci sono più denunce. Dice: escono troppi dischi. Beh, insomma, questo è vero. Oggi rispetto a ieri è più facile registrare un album e stamparlo, ammesso che abbia ancora un senso. Succedono perciò cose strane come il primo disco delle Ace Of Cups, storico gruppo psichedelico giunto al traguardo con la bellezza di cinquant'anni di ritardo. A quei tempi il disco lo facevi solo se entravi nelle grazie di qualche casa discografica che ti imponeva di diventare una rockstar e fare più soldi che potevi (ehm, detta così non suona benissimo, ma tant'è), mentre ora è un hobby "vintage" per appassionati. Insomma, il disco l'abbiamo fatto persino noi Jean Fabry e questo la dice lunga. Poi, magari, in mezzo ai milioni di album pubblicati c'è pure il grande artista, ma chi se ne accorge più? La musica non è più rilevante, o perlomeno non lascia più il segno come un tempo. Non c'è niente da fare, quando l'industria del disco dettava legge nascevano i miti, i culti, i fenomeni di massa e c'era un pubblico disposto a farsi guidare dal profeta di turno. Ora, per carità, i concertoni sono affollati come sempre ma si tratta di vecchie glorie per nostalgici o di mode passeggere per teenager. Son troppo drastico? Dài, mettiamo a confronto questi ultimi vent'anni (diciamo post peer-to-peer) con quello che c'è stato prima (se proprio non con l'età d'oro dei sessanta-settanta ma almeno con gli ottanta-novanta) e vediamo quanti dischi memorabili di artisti nuovi vengono in mente. Pochi, e quei pochi non reggono se confrontati coi colossi del passato. Non è che "la musica di una volta era meglio" e boiate del genere: è che tutte le culture hanno uno splendore e una decadenza, tutto qua. E' stato bello, ciao.

martedì 6 novembre 2018

Dischi importanti: The Beatles - The Beatles




Why don’t we do it in the road?

La scorsa estate sono andato per la prima volta a Londra. Meglio tardi che mai? Meglio tardi che mai. Sono stato sulle strisce pedonali di Abbey Road a fare lo stupido e il giorno dopo su quelle stesse strisce c'era Paul McCartney (a fare lo stupido pure lui, ma lui poteva). La sera ha persino suonato dentro gli studi. Ho recuperato il video sul web e mi sono reso conto che il tempo sta passando inesorabilmente per entrambi. Fra i pezzi in scaletta quattro dal doppio bianco, che invece ha cinquant'anni ma non li dimostra.

Revolution 

Veniamo dunque al sodo: vorrei parlare del white album dei Beatles e mi piacerebbe farla breve ma sarà difficile, anche perchè questo è IL disco prolisso per antonomasia: la leggenda vuole che George Martin, che figurò comunque come produttore nonostante la sempre maggior libertà decisionale dei membri del gruppo, avrebbe preferito un singolo LP piuttosto che un doppio pieno di "fillers", i cosiddetti "riempitivi" (e per fortuna non lo hanno ascoltato). Sarò quindi prolisso pure io (senza bisogno di sforzarmi troppo) e mi dilungherò senz'altro, dato che tra l'altro per me è il disco più importante di tutti. Sono nato nel 1967, annus mirabilis dei Beatles, e fin da piccolo li ho sempre considerati "di famiglia". Negli anni settanta mio babbo portò a casa le due famose raccolte doppie (la "rossa" e la "blu") e le avrò ascoltate un milione di volte: erano la mia stella polare in fatto di musica. Fortunatamente la mia curiosità mi portava ad ascoltare anche quello che, nel bene e nel male, "passava il convento" in quei tempi che sarebbero poi stati considerati (mi scuso per la parolaccia) seminali. Niente però era più seminale dei Beatles, nonostante nei primi anni ottanta venissero bollati come "roba vecchia" da gente che di lì a poco avrebbe visto la luce con cose tipo I Committments (senza offesa). I Beatles (diciamo dal 1966) erano, sono e saranno sempre la "roba nuova", grazie alla creatività che introdussero nella musica pop nel momento in cui questa si fece adulta: le loro intuizioni (chiaramente veicolate dall'enorme visibilità mediatica) sono ancora basilari per chi si misura con la "leggera". Ma torniamo al me stesso adolescente, attirato dal boom del synthpop e dei video musicali ma desideroso di conoscere anche il passato, per capire come si era arrivati al presente e diventare il nerd che son diventato nel futuro. Quando scoprii che il mio amico Asso aveva in casa tutti i dischi dei Beatles, cominciai ad allungargli delle cassette sbavando nell'attesa. La prima cosa che mi registrò fu proprio l'album bianco (forse perchè pensava che, essendo omonimo, fosse il primo) e fu fatta. Ricordo ancora il momento in cui, cuffie in testa, ascoltai i primi suoni beatlesiani a me sconosciuti: l'arpeggio di Dear Prudence che si faceva strada in dissolvenza incrociata sulla coda dell'aereo di Back in the USSR (quest'ultima presente nella raccolta "blu"). Non mi sono ancora ripreso: le quattro divinità che ero abituato a venerare se ne uscivano fuori con canzoni aliene e affascinanti, schegge sperimentali, sberleffi, manierismi meglio-degli-originali, momenti di introspezione, esplosioni ormonali fuori tempo massimo, accostamenti azzardati, capolavori incompiuti, in una parola: vita. Dalle cronache risulta che il contesto in cui si concepì l'album fu caotico, conflittuale, dispersivo ma il talento dei quattro emerse in maniera evidente e forse mai più così geniale; ne sono ulteriore prova i singoli non inseriti nel doppio e gli inediti. Ora, sarebbe bello se riuscissi a scrivere una ipotetica recensione in grado di invogliare l'ascolto e non solo una serie di sterili sbrodolamenti da tifoso. Da dove potrei cominciare ad inoltrarmi nel labirinto? Dai, userò un escamotage: dato che a partire dal doppio bianco il gruppo Beatles fu più che altro un insieme di singole entità in bilico fra autoindulgenza e stato di grazia, proverò a ragionare in termini di contributi compositivi individuali.

McCartney

Tanto per cominciare, l'incipit: Back in the USSR pare una goliardata post-rock'n'roll e invece ha un tiro pazzesco (si può dire?), soprattutto nel passaggio "Back in US-Back in US-Back in USSR". Birthday è all'inizio della seconda metà e più o meno siamo da quelle parti: il glam e il power-pop che verranno sono già tutti qui. Ob-La-Di, Ob-La-Da è per molti la pietra dello scandalo ma, dopo tanti anni, Macca è stato riabilitato e anche una (apparente) scempiaggine come questa ha oramai il suo posto nella storia. E poi ha sdoganato lo ska per le masse. Blackbird è folk-pop intimista in stato di grazia. Helter Skelter è quella cosa che pare abbia inventato l'hard rock; ai tempi deve aver fatto abbastanza paura, ma anche adesso (che di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia) si percepisce una tensione palpabile, nei riffoni di chitarra e in tutto l'impianto ritmico volutamente monotono e "pesante". Ci sono poi due-tre brani che assomigliano a dei jingles pubblicitari (Wild Honey Pie, Why don’t we do it in the road? e la non accreditata Can you take me back) e fungono brillantemente da trait d'union fra i vari pezzi da novanta. In altre parti dell'album McCartney lambisce invece quel manierismo che gli procurerà per tutta la carriera le accuse di parte del popolo musicofilo, ma la questione non si pone a proposito del singolo registrato contemporaneamente all'album: Hey Jude, una delle meraviglie dell'umanità, che chiude il discorso e manda a casa tutti.

Lennon

Se McCartney lavora spesso di fino alla ricerca della canzone pop perfetta, a Lennon invece gliene frega assai poco e alza di continuo l'asticella della provocazione ottenendo esiti contrastanti ma memorabili, come nel caso del pastiche rumoristico Revolution 9. Avanguardia? Snobberia da artistoidi? John Cage per famiglie? Ognuno può pensare quello che vuole. Tra l'altro, anche se si dovrebbe parlare solo di musica, la vicinanza con la concettuale Yoko Ono ha avuto la sua bella influenza, catalizzando per sempre l'odio dei fans meno inclini all'eccentricità. Nelle canzoni-canzoni la futura icona pacifista resta quasi sempre nel solco del folk-blues (esemplari le due versioni di Revolution, di cui una bella distorta, pubblicata su singolo assieme a Hey Jude) lasciandosi dietro gli immortali campi di fragole dell'anno prima. Dear Prudence, Cry Baby Cry e l'inedita What's the new Mary Jane sembrano comunque uscire dalla penna di un Lewis Carroll fattosi grande malvolentieri, Julia è un voce-chitarra acustica da pelle d'oca in ricordo della madre, mentre Happiness Is A Warm Gun è degna della tradizione dissacrante inglese, col suo humour surreale e fuori di testa. Fra le righe dei testi si trovano riferimenti alla recente esperienza in India, con sprezzanti commenti sull'ambiguo Maharishi (Sexy sadie). Infine, con Glass Onion John Lennon saluta i fans del periodo psichedelico con tanto di finti spoiler ("the walrus was Paul") e, tanto per gradire, regala a Ringo il finalone hollywoodiano di Goodnight.

Harrison

Il terzo incomodo sboccia definitivamente con quella che secondo me è la sua miglior composizione, quella While My Guitar Gently Weeps in cui ospita Eric Clapton senza che nessuno se ne accorga, in tempi in cui le comparsate nei dischi altrui non erano ancora la baracconata dei giorni nostri. Il pezzo, concepito come acustico (notevole anche così), durante la gestazione ha preso la forma di una epica ballatona ad alto contenuto energetico che commuoverebbe anche un meteorite. Beatle George porta in dote anche Piggies, pezzo satirico eternamente incompreso che in qualche modo anticipa il futuro coinvolgimento del nostro con i Monty Python, i Beatles dell'umorismo. Poi ci sono il soul di Savoy Truffle, la psichedelia inti-mistica di Long Long Long e l'inedita Not Guilty, probabilmente scartata per le allusioni troppo esplicite allo strapotere Lennon-McCartney all'interno del gruppo.

Starr

A me quest'uomo è sempre piaciuto parecchio come batterista e persino come cantante. Magari a livello compositivo un po' meno: c'è sempre quel retrogusto country che non è che mi faccia impazzire e Don't pass me by (la sua prima prova d'autore ufficiale) ne è perfetta testimonianza. Il pezzo non è comunque male, e per il resto del disco Ringo percuote il percuotibile con i soliti esiti eccellenti oltre a cantare in modo impeccabile Good Night (il ritorno di Billy Shears) e pronunciare istericamente l'immortale "I've got blisters on my fingers!" alla fine di Helter Skelter. Benedette vesciche.

Can you take me back?

A posto? Macchè. Queste mie chiacchiere non bastano a spiegare il white album, perchè mai come in questo caso il tutto è più della somma delle singole parti: forse il suo segreto è nella sequenza delle quattro originarie facciate del long playing che, senza arrivare a formare nessuna pretenziosa suite come sarebbe presto divenuto abitudine nel progressive rock (e -ehm- un po' anche negli ultimi Beatles dell'epitaffio Abbey Road), dà vita ad un gioco di contrasti che animano il disco come se fosse una sconclusionata narrazione, una storia che una volta ascoltata fa venir voglia di essere risentita di nuovo, per cogliere sempre nuovi dettagli senza aver paura di perdere il filo. Il white album non è pertanto "solo" musica: è letteratura, è teatro, è una enciclopedia interattiva che racconta vita, morte e miracoli degli esseri umani partendo dall'Inghilterra del 1968 e andando qua e là nel tempo e nello spazio fino agli angoli più remoti dell'universo. E ritorno.