mercoledì 27 novembre 2019

Dub, dub, dub






















Si può dire? Il reggae non va più di moda. Se chiedi in giro ti dicono che è roba per gli scoppiati di mezza età che frequentano i centri sociali (sempre che esistano ancora, gli scoppiati e i centri sociali). E dire che una volta, alla fine di quasi tutti i concerti, partiva immancabilmente Legend di Bob Marley e tutti belli rilassati. Oggi va forte il reggaeton, ma non ne voglio parlare se no farei la figura del vecchio che non capisce la modernità e mi salirebbe la pressione. In realtà a me, poi, del reggae interessa più che altro il suo derivato più creativo, cioè il dub. L'ho scoperto tardi, precisamente il 25 aprile del 1995 ad un concerto degli Almamegretta a Parma, ma da allora ciclicamente ne faccio uso a scopo ricreativo e pure terapeutico. Il dub nasce come remix del reggae, spolpando quest'ultimo per tenere quasi solamente il "riddim" (basso profondo e batteria ipnotica) aggiungendo echi e riverberi su parti minimali di voce, chitarra e altri strumenti (da non dimenticare la fondamentale melodica). Molti storici remix dub sono stati creati direttamente dal vivo dal bancone del mixer, giocando con i cursori alla "buona la prima" e via. Questa roba mi fa viaggiare e star bene senza bisogno di additivi. Il mio (e non solo mio) mito è Lee "Scratch" Perry, pioniere della musica giamaicana tutta e fondatore dei mitici Black Ark Studios (pare li abbia anche bruciati intenzionalmente, ma questa è un'altra storia). Quest'uomo è ancora in giro nonostante abbia un migliaio di anni e ogni tanto dia l'impressione di essere non sulla Terra ma su un'altra galassia. Quest'anno con l'aiuto di Adrian Sherwood (uno che di dub se ne intende e non poco) ha fatto uscire due album: Rainford e Heavy Rain (remix del primo con vari ospiti di prestigio). Una meraviglia per le mie orecchie e contro il logorio della vita moderna, che mi dà modo di perdermi fra gli spazi vuoti fra un suono e l'altro e ciondolare a bordo di una linea di basso proveniente dal cuore dell'universo.

mercoledì 20 novembre 2019

Rapid Sonic Youth Movement

In occasione dell'uscita della ristampa di Monster e dell'album solo di Kim Gordon (sorprendentemente buoni lavori entrambi) mi sono reso conto che, quando questo decennio era agli albori, R.E.M. e Sonic Youth erano ancora dignitose entità viventi nonostante gli splendori artistici fossero ormai alle spalle. Sono due dei gruppi che ho avuto modo di vedere dal vivo più spesso e mi hanno accompagnato per un lungo periodo delle mie scorribande musical-esistenziali: i R.E.M. come massima espressione del pop-folk-wave e i Sonic Youth alfieri dell'art-noise-rock. Entrambi legati ai Velvet Underground ed entrambi "ammericani", anche se in senso alternativo. Fino a dieci anni fa era diventata un'abitudine aspettare i loro nuovi lavori, fondamentalmente per andare ai concerti e perpetuare un rituale socioculturale probabilmente sostitutivo di una qualche religione o, più prosaicamente, del tifo per una squadra di calcio o simili. Improvvisamente chiusero baracca entrambi: i R.E.M. perchè non avevano più niente di nuovo da dire e non avevano bisogno di diventare gli Stones indie (per quello ci sono i Pearl Jam) potendo permettersi di campare di rendita, i Sonic Youth per un motivo più personale (la fine della coppia Gordon-Moore). Nel giro di poco mi sono quindi ritrovato orfano: l'uscita di Kim Deal dai Pixies e la scomparsa di Grant Hart degli Husker Du hanno poi chiuso definitivamente la porta su una parte importante della mia giovinezza e mi sono ritrovato con i capelli brizzolati (cit. carta d'identità) e più anni dietro che davanti. Resta il tenero ricordo delle bevande caldo-borghesi consumate dai sonici nei camerini del palazzetto di Cesena (mentre noi andavamo di sangiovese) e dell'ultimo tour di Stipe e soci con Bill Berry in formazione, quando Marlo mi scrisse "Let me in" sulla t-shirt arancione. Alè, chiusa la pratica nostalgia.

lunedì 18 novembre 2019

A sò curiós

Weekend novembrino epocale nella cittadina di provincia dove ho la residenza: a Russi si è svolto il Festival Della Curiosità, una scommessa vinta dalla nuova amministrazione assieme alla cosiddetta "comunità artistica locale". Ora, essere definito artista mi può anche stare bene, ma ovviamente mi imbarazza e come minimo la "a" la considero minuscola. Come ha detto Matteo Scaioli al termine della performance sonica che ha chiuso il festival: siamo tutti artisti e i più fortunati di noi riescono a trovare il modo giusto di esprimersi. Una delle mie solite canzoncine cenerentola (A sò curiós) è stata fatta diventare una regina grazie a Marco Zanotti, Francesco Cimatti e Duna. Durante la Parata Dei Curiosi sembrava un inno nazionale: sono frastornato e faccio fatica a credere che sia successo veramente, ma come sempre invito chiunque a provarci, perchè se ci son riuscito io... Con la Giulia (Torelli) e Duna abbiamo poi riempito la biblioteca con lo spettacolo Non lo sapevo, mix di arte e scienza con una forte impronta hip-hop (breakdance, writing e rap abbinate a logopedia, biologia marina e leggi della fisica). C'erano anche i Jean Fabry (special guest Maria Giulia Salvatori) e abbiamo persino avuto il coraggio di fare una versione rap de I pappi dei pioppi con botta e risposta del pubblico. La vita, come sempre, si rivela piena di sorprese. Basta essere curiosi.