Buongiorno, ragazzi. Oggi parleremo della sindrome di Stendhal, cioè di quella particolare reazione scatenata dalle opere d'arte quando ci si trova al loro cospetto. L'effetto si può collocare in un range che va grosso modo dalla forte emozione fino allo scompenso psichico: se volete saperne di più (o di meno) guardate
qui e buona notte. A noi interessa soprattutto parlarne in riferimento all'ascolto di dischi, cioè album, cioè musica pop-rock-indie-quello che volete, perchè ogni tanto a me è successo qualcosa di simile, ecco. State seduti e non fate casino, non me ne frega niente se trovate l'argomento noioso. Sono previste verifiche e interrogazioni, quindi: occhio. Dicevamo: a me, che di musica ne ascolto tanta, normalmente con un disco può succedere che:
1) al primo ascolto non mi dice niente e magari non lo riascolterò mai più;
2) al primo ascolto non mi dice quasi niente e spesso, grazie a quel quasi gli concedo un'altra chance e: o mi prende, o mi accorgo che mi ero sbagliato e ciao;
3) al primo ascolto mi annichilisce e alla fine mi ritrovo fra il confusionale e l'estasiato senza saper bene che dire o fare.
Uno di questi casi ben impresso della mia memoria riguarda il primo impatto con Rid of me di PJ Harvey (1993): sarà stata l'ansia anticipatoria, sarà stata la produzione di quell'animale di Steve Albini, fatto sta che dopo l'ultima traccia era come se fossi stato investito da un camion (e mi piaceva). Nel corso degli anni ci sono stati altri momenti-Stendhal (anche coi film, per dire) e recentemente me ne son capitati ben due, vuoi per lo stress da Covid-19, vuoi per la solita tiritera dell'età che avanza, vuoi perchè magari certi album sono belli e basta (e non solo perchè lo dice Pitchfork).
Fiona Apple - Fetch the bolt cutters
L'ho conosciuta col lavoro precedente e devo dire che, a tutt'oggi, le robe vecchie non le ho ancora sentite. E' come se non ne avessi bisogno, The idler wheel mi è bastato (nella miglior accezione del termine). Aspettavo prima o poi un lavoro nuovo ma le varie notizie giunte nel corso degli anni non lasciavano trapelare niente di buono. Poi, eccolo qua. Suoni crudi, rumori casalinghi, colori che vanno e vengono, questa che canta pop e blues come se fosse tarantolata, in uno stato febbrile, urgente, se ne frega dei formalismi e prosegue l'invenzione di un linguaggio tutto suo (come per me dovrebbe essere SEMPRE): non sono neanche troppo blasfemi gli accostamenti fatti da qualche recensore col John Lennon di Plastic Ono Band e col Tom Waits di Swordfishtrombones. Con quel modo di cantare potrebbe dire qualsiasi cosa, ma alcune parole restano particolarmente impresse: "Dàmmi dei calci da sotto il tavolo quanto ti pare, tanto non me ne starò zitta", "Passami le tronchesi, son (bloccata) qua da troppo tempo", "mi espando come le fragole, vado in su come i piselli e i fagioli", "io e te siamo come una coppia di cosmonauti, solo con più gravità di quando siamo partiti" e via dicendo (a scanso di equivoci, comunque, ribadisco la mia idea generale: mai disgiungere testo e musica). Grazie Fiona, bella scossa, mi ci voleva proprio.
Bob Dylan - Rough and rowdy ways
Per molti Bob Dylan è IL MITO, per altri un fastidioso rumore di fondo. Per me rappresenta il Big Bang della musica che mi piace ascoltare, considerando come minimo i tre dischi della svolta elettrica dal 1964 al 1966. Non tutto è intoccabile da lì in poi (eufemismo) e l'ultimo album che mi aveva detto qualcosa era Time out of mind (1997). Negli anni a seguire tanto rispetto per il suo passato e... un Nobel. Quando ormai secondo me nessuno se lo aspettava più è sbucato questo disco qua. Pezzi molto lunghi, dilatati, ripetitivi musicalmente ma tenuti costantemente vivi da un gruppo di "suonatori" partecipi e sotto l'influsso di qualche imprecisato incantesimo. Si può trovare senz'altro un paragone con l'ultimo Nick Cave, con Mark Kozelek o con... Bob Dylan. Anche se quest'uomo è sempre stato un maestro nel dire la verità fingendo, qualcosa di molto simile alla sincerità trabocca da tutte le parti e quella voce (che non nasconde gli affronti del tempo, anzi li valorizza) riesce a colpire nel segno sia che pronunci parole anonime o le miriadi di nomi più o meno famosi citati nei torrenziali testi, in parte flusso di coscienza, in parte necessità espressiva. Alla fine capisci che ti ha fregato un'altra volta, come faceva ai tempi belli dell'uomo tamburino o delle visioni di Johanna, e ringrazi il destino per averti fatto godere di una grande opera d'arte, lasciandoti imbaluchito proprio come il povero Stendhal.