domenica 29 dicembre 2019

Dischi importanti: Pixies - Doolittle

Vaughan Oliver se ne è andato. Era un grande grafico e a lui si devono molte classiche cover di album dagli anni ottanta in giù, soprattutto per la benemerita 4AD. Desidero ricordarlo per il booklet di Doolittle dei Pixies, uno dei miei tre-quattro album della vita. Sul finire dei vituperato decennio postmoderno lo ascoltavo incessantemente, come ho già scritto qui. Da qualche mese è uscito il loro disco nuovo e non è neanche male, li volevo persino andare a vedere a Bologna ma la vecchiaia me lo ha impedito. Oh, capiamoci subito: io faccio parte della fazione "Senza-Kim-Deal-non-sono-i-Pixies", ma lasciamo stare questo argomento perchè il discorso sarebbe più lungo e più inutile del solito. I Pixies, dicevo. Ecco, forse a livello di alternative rock americano 80-90 ho macinato più strada con i R.E.M. e gli  Hüsker Dü, ma i Pixies per me sono stati comunque fondamentali perchè al momento giusto (trent'anni fa esatti) vennero da un altro pianeta e me lo fecero pure visitare. Nell'anno di grazia 1989 passavo più tempo da Muzak che a casa mia e, dopo aver studiato per bene i "classici", restavo in paziente attesa del mio disco generazionale. Ascoltavo con grande passione un sacco di roba, ma ero sempre un filo in ritardo, fuori tempo, sfasato, non in sincrono (ok, credo che ci siamo capiti): la cosa durò fino all'uscita di Doolittle. A dire il vero lo comprai qualche mese dopo l'uscita, ma a quei tempi non c'era l'attuale ansia anticipatoria compulsiva e poi non era - tipo - l'ultimo di Madonna (che avrebbe avuto una immediata e capillare copertura mediatica, anche senza i benemeriti social). E poi, chi li ascoltava a Russi 'sti Pixies? Io, Roto e (forse) qualcun'altro. Fatto sta che, letta una qualche recensione, Doolittle mi incuriosì talmente tanto che ben presto lo ordinai e mi misi in trepida attesa. Arrivò, lo comprai (dettaglio non irrilevante) e me lo portai a casa. Cominciai a venerarlo già a partire da quel bel libretto pieno di foto virate seppia aliene ma familiari, poi misi il cd in cuffia e ciao.

Debaser. Giro di basso infantile e squadrato ma seminale come pochi, frase di chitarra da inno nazionale, batteria spietata e parte la voce invasata ma molto seria di Black Francis che tira in ballo Luis Bunuel e i suoi occhi tagliati con la lametta. Il pezzo è un ottovolante con pieni, vuoti, stop & go, progressioni e catarsi conclusiva. "Maestra, cos'è l'indie rock?" "Debaser, ragazzi.".

Tame. Il pezzo più isterico che io abbia mai sentito: mai fuori dalle righe, ma fuori da tutto. Un mix fra il pop sixties e il grindcore. Le due voci sono una il perfetto contraltare dell'altra e l'effetto è un capolavoro. "Maestra, qual'è il pezzo migliore per pogare?" "Tame, ragazzi.".

Wave of mutilation. Un titolo dark per un pezzo punk-surf (tra l'altro la versione lenta è forse ancora più bella).

I bleed. Si tira un po' il fiato ma fino a un certo punto. Una cantilena deviata e bella carica.

Here Comes Your Man. Sorpresa! Una canzone di quelle vere, con melodia, ritornello e tutto quanto. Pezzo commovente.

Dead. Si torna a fare legna con qualche reminescenza Capt. Beefheart (non so perchè ma in questo pezzo ce l'ho sempre sentito).

Monkey Gone to Heaven. Che dire? L'ho sentita fino alla nausea, ma quando dice che se l'uomo è cinque il diavolo è sei e se il diavolo è sei allora dio è sette... è molto convincente, ecco.

Mr. Grieves. Alla fine questo forse è il mio pezzo preferito di Doolittle: nel giro di due minuti scarsi passa dal reggae (per modo di dire), al rockabilly, al blues. Il tutto con un tiro impeccabile.

Crackity Jones. "Maestra, qual'è il pezzo migliore per pogare?" "Crackity Jones, ragazzi." "Ma maestra, non era Tame?" "Prima una, poi l'altra, ragazzi.".

La La Love You. Per la serie: facciamo cantare al batterista un pezzo da balera (con tanto di fischio) e facciamola franca.

No. 13 Baby. Alla fine questo forse è il mio secondo pezzo preferito di Doolittle: serio e tosto, con un finale strumentale che vorrei durasse all'infinito.

There Goes My Gun. Riempitivo western? Ma ce ne fossero! I cori a due voci sono splendidi.

Hey. La pausa di sospensione dopo il primo "Hey!" ferma il battito cardiaco, poi parte un lentone distorto che fa cantare anche le pietre.

Silver. Pezzo di Kim Deal, ambientazione tipo città fantasma nel deserto e pelle d'oca.

Gouge Away. L'unico finale possibile per un disco del genere, ancora urla, chitarre, coretti e la voglia di rimettere su il disco dall'inizio.

P.S. Chiedo scusa, ma sono stato volutamente di parte. Al cuor non si comanda.

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