domenica 13 luglio 2025

It's an english thing

Esiste un confine pressoché invisibile tra i luoghi comuni e i pregiudizi e, in questi tempi di wokismo più o meno equilibrato, bisogna stare mooolto in occhio. Sarà banale, ma forse ai giorni nostri i Monty Python - per dirne una - non avrebbero potuto esistere. E invece, almeno per me, sono un'istituzione e - Alert! Stereotipo! - sono inglesi, inglesissimi, non avrebbero potuto essere altro che inglesi. Quando l'altra sera a Soliera ha cominciato a piovere e Tyler Hyde dei Black Country, New Road ha chiesto scusa dicendo "It's an english thing" son stato contento perchè l'ha detto lei anticipandomi di un soffio. Son stato contento anche perchè - più che altro - eravamo in prima fila a vederli suonare il loro album Forever Howlong, disco che mi ha abbastanza sbalordito. Sono un fan patologico e faccio il possibile perchè questo non infici la mia capacità di giudizio, ma è dura. Nonostante i primi due lavori (quelli con il cantante originale Isaac Wood) restino due disconi, io ho cominciato a sgranare gli occhi col terzo, Live At Bush Hall, dove fa capolino in modo determinante un elemento pop che a mio parere fa la differenza. Quel live l'ho mandato a memoria e non mi aspettavo l'ulteriore salto in avanti di Forever Howlong: scrittura, arrangiamenti e suoni inappuntabili. La scelta di puntare sulle tre autrici/cantanti Hyde, Kershaw, Ellery (con gli arrangiamenti di tutta la baracca) è vincente perchè la diversità dei loro stili produce un bel caleidoscopio di imbarazzi della scelta. Prog? Rock sperimentale? Fighetti di Cambridge? Ma chi se ne frega, a me ricordano tante cose ma nessuna ci si avvicina: Fiona Apple (certi pezzi di May Kershaw, comunque personalissima), i Beatles in zona doppio bianco (bestemmia?), i Velvet (dove c'è indie ci sono sempre i Velvet), i Sonic Youth (sì, non c'entrano niente, ma nella struttura "a blocchi" di certi pezzi e in certi climax...), il folk bretone "aggiornato", i Radiohead meno cerebrali, insomma mi ricordano roba che mi piace.
Questi sono saliti sul palco montando da sè le loro attrezzature (ecco, qui mi hanno ricordato Le Cirque Bidon, non me ne vogliano gli oltremanica) poi hanno suonato un'oretta facendo "solo" il disco nuovo (durante il tour rare le digressioni) e sciorinando una scaletta rimescolata (all'apparenza tirata a sorte) rispetto all' album. Quegli undici pezzi però funzionano in qualsiasi ordine e si sono permessi di attaccare con una roba da pelle d'oca come For the cold country, che chiunque sano di mente piazzerebbe verso la fine della serata. Ah, gli eccentrici inglesi! Mi tornano in mente il momentone indie-freak-country di Two horses (con la Ellery che sembra sempre una capitata lì per caso e invece) e la performance da fiato sospeso di Nancy tries to take the night, dove la Hyde ha rivestito di nuovi significati la parola "intensità". Quando poi hanno cacciato fuori i flautoni (i tenor recorder!) per la performance della title-track, con la Kershaw a fare da maestrina dirigendo gli altri cinque e cantando un testo che più assurdo non si può come se fosse un inno nazionale, quando la pausa di sei secondi prevista nel pezzo è stata "sconsacrata" da uno dei cinque che è ripartito in anticipo e lei ha fatto un sorrisino del tipo "disgraziati, dopo facciamo i conti" ecco, in quel momento lì, in piena sindrome di Stendhal, ho visto questi sei ragazzi innamorati della musica-pop-con-qualcosina-in-più nel bel mezzo di una missione impossibile per traghettarne lo spirito di generazione in generazione, con il loro aplomb tipicamente british (sto calcando la mano appositamente sui cliché, spero sia chiaro) e le loro birrette da palco di periferia e, va beh, insomma, mi son sentito fortunato ad essere lì sotto la pioggia di Soliera, Emilia, United Kingdom. Pioveva: avrei potuto persino commuovermi e non se ne sarebbe accorto nessuno.

domenica 6 luglio 2025

Choses à faire à Paris pendant un orage



Ogni tanto mi faccio prendere dall'entusiasmo e mi butto senza vergogna. Sono viaggi spazio-temporali non adatti ad uno della mia età, ma tutto sommato il più delle volte ne esco bene. Per dire, l'altro giorno ad un certo punto mi son trovato a vagare per le vie sottostanti al Sacro Cuore di Parigi in cerca di uno straccio di spuntino vegetariano (non dico vegano perchè, insomma, en France oeufs et fromage fanno parte della formula chimica dell'aria da respirare) e, trovato uno squallido sandwich sono tornato alla mia destinazione iniziale. Qui la questione si fa interessante perchè la mia destinazione iniziale era fuori da Le Trianon, in fila assieme ad un mucchio di ragazze dell'età di mia figlia (la quale figlia era lì pure lei, altrimenti il mio atto sarebbe obbiettivamente apparso ancora più bizzarro) in attesa del concerto di Jasmine.4.t e Lucy Dacus. Come sono finito lì? La farò breve. più o meno dai tempi del lockdown (no, dai, giuro, la farò breve sul serio) ho scoperto una serie di nuovi artisti di cui mi sono infatuato, in una sorta di terza o quarta giovinezza "musicofila". Ecco una succinta lista, e non mi si prenda troppo per il culo perchè - si sa - al cuor non si comanda: Idles, Billie Eilish, Sleaford Mods, Dry Cleaning, Black Country, New Road, Wet Leg, Caroline Polachek, Courtney Barnett, Coma_Cose, Madame, English Teacher, eccetera. Lo snodo cruciale di questa mia ricaduta nel fanatismo è stato però uno in particolare: incuriosito da una o due cover buttate là (tipo Black boys on moped di Sinead O'Connor) mi sono avvicinato a Phoebe Bridgers e al suo disco Punisher. Boom. Una volta superato lo straniamento dovuto al fatto dell'ascoltare con gusto musica fatta da gente-che-potrebbe-essere-mia-figlia, da Punisher sono passato al resto della discografia e al vortice delle collaborazioni. La più importante di queste ultime è senz'altro il progetto Boygenius assieme a Julien Baker e, appunto, Lucy Dacus. Il briciolo di spirito critico residuo mi consente ancora di avere contezza di cosa mi piaccia di più o di meno: per esempio, all'interno dell'universo Boygenius l'ultimo Dacus è buono ma non come i precedenti, mentre l'album di Jasmine 4.t. (una produzione del trio) mi è parso notevole e son stato ben contento di apprezzarne una buona parte dal vivo in qualità di opener. Gran bel doppio concerto, dunque: sono ovviamente emerse fra un pezzo e l'altro le recenti tematiche sociopolitiche che scuotono il nostro piccolo misero mondo e, pur condividendo in toto le posizioni espresse sopra e sotto al palco, non sono stato condizionato nel godere dell'aspetto prettamente artistico. Sarà anche il solito indie-alternative-pop-folk-rock che ascolto da sempre, ma il trasporto con cui lo interpretano le giovani generazioni scalda il cuore. E così si esce leggeri da Le Trianon, buttandosi nell'aria fresca di una Parigi appena attraversata da una tempesta, con in testa ancora il finale di Night Shift, miracoloso mantra lenitivo per cuori infranti eseguito come da prassi a chitarre sguainate e ugole oltre il muro del suono.

You got a 9 to 5, so I'll take the night shift
And I'll never see you again if I can help it
In five years I hope the songs feel like covers
Dedicated to new lovers


Lucy Dacus, "Night Shift"