domenica 6 luglio 2025

Choses à faire à Paris pendant un orage



Ogni tanto mi faccio prendere dall'entusiasmo e mi butto senza vergogna. Sono viaggi spazio-temporali non adatti ad uno della mia età, ma tutto sommato il più delle volte ne esco bene. Per dire, l'altro giorno ad un certo punto mi son trovato a vagare per le vie sottostanti al Sacro Cuore di Parigi in cerca di uno straccio di spuntino vegetariano (non dico vegano perchè, insomma, en France oeufs et fromage fanno parte della formula chimica dell'aria da respirare) e, trovato uno squallido sandwich sono tornato alla mia destinazione iniziale. Qui la questione si fa interessante perchè la mia destinazione iniziale era fuori da Le Trianon, in fila assieme ad un mucchio di ragazze dell'età di mia figlia (la quale figlia era lì pure lei, altrimenti il mio atto sarebbe obbiettivamente apparso ancora più bizzarro) in attesa del concerto di Jasmine.4.t e Lucy Dacus. Come sono finito lì? La farò breve. più o meno dai tempi del lockdown (no, dai, giuro, la farò breve sul serio) ho scoperto una serie di nuovi artisti di cui mi sono infatuato, in una sorta di terza o quarta giovinezza "musicofila". Ecco una succinta lista, e non mi si prenda troppo per il culo perchè - si sa - al cuor non si comanda: Idles, Billie Eilish, Sleaford Mods, Dry Cleaning, Black Country, New Road, Wet Leg, Caroline Polachek, Courtney Barnett, Coma_Cose, Madame, English Teacher, eccetera. Lo snodo cruciale di questa mia ricaduta nel fanatismo è stato però uno in particolare: incuriosito da una o due cover buttate là (tipo Black boys on moped di Sinead O'Connor) mi sono avvicinato a Phoebe Bridgers e al suo disco Punisher. Boom. Una volta superato lo straniamento dovuto al fatto dell'ascoltare con gusto musica fatta da gente-che-potrebbe-essere-mia-figlia, da Punisher sono passato al resto della discografia e al vortice delle collaborazioni. La più importante di queste ultime è senz'altro il progetto Boygenius assieme a Julien Baker e, appunto, Lucy Dacus. Il briciolo di spirito critico residuo mi consente ancora di avere contezza di cosa mi piaccia di più o di meno: per esempio, all'interno dell'universo Boygenius l'ultimo Dacus è buono ma non come i precedenti, mentre l'album di Jasmine 4.t. (una produzione del trio) mi è parso notevole e son stato ben contento di apprezzarne una buona parte dal vivo in qualità di opener. Gran bel doppio concerto, dunque: sono ovviamente emerse fra un pezzo e l'altro le recenti tematiche sociopolitiche che scuotono il nostro piccolo misero mondo e, pur condividendo in toto le posizioni espresse sopra e sotto al palco, non sono stato condizionato nel godere dell'aspetto prettamente artistico. Sarà anche il solito indie-alternative-pop-folk-rock che ascolto da sempre, ma il trasporto con cui lo interpretano le giovani generazioni scalda il cuore. E così si esce leggeri da Le Trianon, buttandosi nell'aria fresca di una Parigi appena attraversata da una tempesta, con in testa ancora il finale di Night Shift, miracoloso mantra lenitivo per cuori infranti eseguito come da prassi a chitarre sguainate e ugole oltre il muro del suono.

You got a 9 to 5, so I'll take the night shift
And I'll never see you again if I can help it
In five years I hope the songs feel like covers
Dedicated to new lovers


Lucy Dacus, "Night Shift"

sabato 7 giugno 2025

Sarà l'aria di Duluth


Giusto sessant'anni fa, Bob Dylan si esibì al Folk Festival di Newport in quello che passò alla storia come il giorno in cui svestì i panni del menestrello-folk-voce-di-una-generazione per indossare quelli della rockstar-elettrica-traditrice. In realtà le cose, come spesso accade, non andarono proprio come dicono le leggende e da quel dì ognuno se l'è continuata a raccontare come gli pare. Una cosa è certa, però: Dylan in quell'anno cambiò stile in maniera piuttosto sconvolgente, abbracciando i nuovi suoni elettrificati e dando probabilmente origine definitivamente alla musica rock come la conosciamo (pop-rock, punk-rock, indie-rock, e via definendo). Ora, mettendomi nei panni di un fan del Dylan "acustico" chissà, forse anch'io avrei fatto fatica a comprendere "a botta calda" una simile svolta e mi sarei sentito preso in giro dal mio eroe dandogli del venduto se non peggio. Ovviamente, questa reazione ha a che fare con l'identificazione totale con un modello inesistente, azzera l'apertura mentale e sconfina pericolosamente nell'idolatria. Questa modesta conclusione mi è uscita perchè di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, la musica (forse) non è più COSI' IMPORTANTE e in più, ehm, sono vecchio. Ma veniamo al punto. Ah, perchè, non era questo il punto? No, anzi sì, ma aspetta che ti racconto un fatto. Allora: c'è quest'altro musicista nativo di Duluth, il buon Alan Sparhawk, che una volta sciolto il suo gruppo (i grandi Low) dopo la scomparsa della moglie Mimi Parker (batterista e altra voce della band) ha lentamente ricominciato a fare musica ed ha pubblicato di recente un paio di dischi solisti. Il primo ("White Roses, My God") è quello più sconvolgente perchè (e qui mi riallaccio a Dylan) annulla lo slowcore chitarra-basso-batteria dei Low in nome di suoni elettronici e -udite!- voce filtratissima con autotune, vocoder o come diavolo lo si voglia chiamare. Un piccolo trauma per i fans, anche se gli ultimi dischi a nome Low andavano comunque verso direzioni simili, anche forse più estreme (vedi soprattutto "Double Negative", con voci spappolate e white noise digitale a manetta). Ma qual'è l'elemento che differenzia WRMG da quei lavori? Mi sento di dire che quest'ultimo sia a tratti meno "serio" (spero di non essere frainteso nell'uso che faccio di questa parola) e "pericolosamente" virante verso sonorità emo-techno-trap (alè, l'ho detta) ergo quasi fuori tema in relazione al mood solitamente associato al nostro. In poche parole, aspettative qua e là un po' deluse: aridacci chitarra, voce e malinconia rumorosa, please. Bene, il secondo recente disco solista di Sparhawk con il gruppo folk Trampled By Turtles da cui il letterale titolo "With Trampled By Turtles" è proprio invece quello che voleva la ggente: sospiri di sollievo, "sbandata" perdonata e via ad un bel tour mondiale. Ho deciso di presenziare alla tappa al Locomotiv di Bologna con l'idea di un concerto alla vecchia maniera anche se, qualche giorno prima, scoprendo che il tour si chiamava White Roses Tour ho deciso di riascoltarmi il disco precedente, non si sa mai. Beh, la rinfrescata mi è tornata utile, perchè per tutta la prima parte dello show il nostro Alan ha performato con voce effettata sopra base electro proprio i pezzi di quel disco lì, saltando qua e là come un ossesso con una convinzione contagiosa. E difatti mi ha convinto: mi è piaciuto sia in codesta versione sia nella successiva versione classica. Effetto straniante ma positivo al tempo stesso, un po' come vedere due gruppi diversi di due mondi diversi ma -oplà- più uguali di quanto sembri. Hanno splendidamente fatto da collante il figliolo Cyrus (basso e voce) e il buon Eric Pollard (batteria e voce). Va detto che addirittura, rispetto ad altre date del periodo, dopo le due attesissime e commoventi cover dei Low ha voluto finire con un altro brano dritto dal disco delle rose bianche. Alla fine, solo belle sensazioni. Grazie Alan, per la svegliata che ci hai dato e anche per l'ottimo consiglio elargito fra un pezzo e l'altro: "Quando nella vita vi troverete in difficoltà tenete duro. Sapete perchè dovete tenere duro? Perchè ve l'ho detto io." Boh, sarà l'aria di Duluth.
le foto sono di Elisa Magnoni (lostingroove)

sabato 31 maggio 2025

Graffette

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


I Pavement mi hanno accompagnato lungo tutti gli anni novanta. Letteralmente: li ho visti la prima volta a Cesena di supporto ai Sonic Youth nel 1992 e l'ultima volta nel 1999 al Velvet di Rimini. Detta così sembra che si stia parlando di un gruppo indie romagnolo e invece erano mmerecani fino al midollo, tant'è che all'inizio li avevo sottovalutati nonostante l'hype ("Ma dài, 'sta roba l'hanno già fatta i Velvet Underground venticinque anni fa!"). Poi, però, mi sono arrivate LE CANZONI, da Summer babe a Here, da Cut your hair a Range life, eccetera, eccetera. Da alfieri inizialmente del cosiddetto lo-fi (movimento fondamentale ma che ha generato anche un bel po' di munnezza non riciclabile) ad ultimi rappresentanti del rock delle origini - sì, compresi gli assoli di chitarra, caricaturali e parossistici ma allo stesso tempo genuini e carichi a balestra. E poi ovviamente il cantato di Stephen Malkmus, sempre sul punto di prenderti per il culo e invece pieno di sincero trasporto emotivo, in grado di farti ridere e piangere allo stesso tempo. Li ho vissuti con nostalgia in tempo reale, non so se riuscirò a spiegare la cosa decentemente: ha a che fare un po' con ragioni mie anagrafiche (la fin troppo lunga adolescenza stava volgendo al termine) e un po' perchè anche loro, secondo me, si rendevano ben conto di incarnare la fine di un mondo: quello pre-internet, pre-social, in cui tutto pareva più semplice, più netto, con un orizzonte ben visibile nella sua limitatezza (sarò banale, ma mi sembrava un mondo molto sovrapponibile a quello di "The Truman Show", altro caposaldo della cultura pop fine novanta). Ci si apprestava a cambiare pelle, insomma, senza sapere cosa si sarebbe diventati: ora che lo sappiamo, aneliamo disperatamente al tornare indietro fino ad una presunta innocenza perduta (spoiler: non è mai esistita). Così, in questi tempi confusi, sono tornati persino i Pavement: col meta-film "Pavements" e nel riflusso della rete con b-sides diventate inaspettatamente virali (Harness your hopes). In realtà - si può dire? - non se ne erano mai andati, come tutto ciò a cui ci si aggrappa (inutilmente) dentro al vorticante tornado in cui ci è dato di vivere. Ah, da qualche parte ho ancora una delle graffette che il loro primo batterista (l'indimenticato Gary Young) distribuiva all'ingresso dei concerti: forse lui aveva proprio capito tutto e prima o poi - chissà - quella graffetta finirà col salvarmi la pelle.