Ciò che balza subito agli occhi sono - appunto - gli occhi. E non è una questione estetica, si badi bene: sono occhi spiritati ma tranquillizzanti, roba che a Salem forse non l'avrebbe passata liscia. Quando poi da quel corpo minuto esce quel rantolo, così sgraziato e così intonato, mi rendo infine conto che sono davvero al cospetto di Kristin Hersh, uno dei pilastri della musica alternativa (si chiamava davvero così, giuro) dei miei tempi, ancora viva e propositiva come non mai. Prima nel ricordo del perdente perduto Vic Chesnutt, poi con i suoi pezzi che paiono tutti nati nello stesso medesimo istante, figli di qualcosa che non è dato capire ma si avverte come familiare e "spostato" al tempo stesso. Gratis in un'officina di biciclette, ecco dove ho finalmente visto Kristin Hersh, dopo che nel 1995 al Reading Festival l'avevo intravista - rasata a zero, con i Throwing Muses - in uno schermo gigante e nulla più, perchè le bottiglie di birra che avevo con me mi obbligarono a fare dietrofront all'ingresso dell'area concerti. Ogni cosa a suo tempo, comunque: grazie ai marchigiani del Fuori! Festival ho avuto la fortuna di poter ascoltare un piccolo pezzo di storia musicale contemporanea, coi suoi arpeggi fra gli Appalachi e Bert Jansch, la sua voce fra Edith Piaf e Kurt Cobain (questa mi è venuta così, chiedo scusa a tutti) e le sue canzoni fatte di vita, colori, pensieri e un po' di sano rumore.