giovedì 6 novembre 2025
The sound of young Scotland (letteralmente)
Ricordo che negli anni ottanta era normale prendere bonariamente in giro i musicofili più "anziani" per il loro attaccamento agli artisti della loro generazione: secondo loro la musica buona era quella là e la contemporaneità valeva ben poco. Nonostante il periodo a cui si riferivano fosse nientemeno che quello degli anni sessanta e settanta, vale a dire l'età dell'oro per il rock e il pop, era chiaramente una visione "affettiva" e nostalgica della musica e ad ogni modo non c'era proprio nulla di male. Oggi le cose sono un filino cambiate, con gli algoritmi, le nicchie, eccetera. Esistono ancora fenomeni generazionali ma non sempre sono la maggioranza. Capita quindi che Tyler Hyde dei Black Country, New Road chieda innocentemente al pubblico quanti conoscano i Big Star e alziamo la mano tipo in tre. Capita che Olivia Rodrigo canti assieme a Robert Smith e a David Byrne, gente che ha iniziato circa cinquant'anni fa (è come se i Beatles ai loro tempi avessero suonato con musicisti della prima guerra mondiale). E poi capita che io ascolti The Cords. Sono due sorelle zona Glasgow, potrebbero essere mie nipoti (nel senso proprio di nonno, non di zio) e fanno una roba voce-chitarra-batteria con un tiro pazzesco che potrebbe ricordare i Ramones acustici, i Cure di Boys don't cry, gli Smiths e ovviamente tutto il giro jangle-pop scozzese anni ottanta di etichette come la Postcard Records, il cui motto era "The sound of young Scotland". Io mi diverto tantissimo, ma poi mi chiedo: ma che senso ha ascoltare questa cosa nel 2025? Senza vergogna, mi dò una risposta semplice semplice: ha senso proprio perchè mi diverto. Chi se ne frega dell'età o del genere, progetti come questi vanno dritti all'essenza della musica popolare: far sì che l'ascoltatore si identifichi e che muova il culo. Come faccio ad identificarmi? Ovviamente, per motivi perlomeno anagrafici, spesso non mi identifico con chi suona ma piuttosto con quello che esprime. E sono a posto così. Dovrei ascoltare - con tutto il rispetto - i Foo Fighters o i Coldplay? La canzone preferita di John Peel era Teenage kicks degli Undertones, trattato mignon su quel momento della vita chiamato adolescenza che in realtà non finisce mai, perchè si continua sempre a sbagliare, ad imparare e a scoprire cose inaspettate. Poi, è chiaro: la vecchiaia esiste e vuole il suo avere, ma spesso sono proprio i giovani a mostrarci la via e non bisogna fare i soliti vecchi caproni, basta ascoltare e non dare niente per scontato. Comunque, tornando a The Cords, non mi pare proprio che siano mosse da un intento intellettualoide o retromaniaco: si sente che ci credono e quando nominano i loro punti di riferimento sono sicuramente sincere perchè più che altro si tratta di vecchie e nuove band della loro zona, con successo limitato o pressoché nullo. Chissà quanti ce ne sono, di gruppi così. Poi è chiaro che emergono quelli con la miglior capacità promozionale o - addirittura! - quelli più dotati. Ha sempre funzionato così e tuttora vige questo meccanismo, magari per periodi di tempo più limitati vista la paradossale mole di proposte rispetto alla ricettività del mercato. Tutto questo sermone per arrivare a dire che inaspettatamente, certi suoni sono ancora vivi e vegeti: in fin dei conti forse è tutta folk music, ce l'abbiamo sottopelle dai tempi dei tempi e quando c'è bisogno per fortuna salta fuori.
mercoledì 29 ottobre 2025
Ain't no one going to turn me 'round
Flashback! 6 luglio 2025 a Soliera (Modena). Nella playlist di sottofondo diffusa prima dell'esibizione dei Black Country, New Road un pezzo mi ha fatto sobbalzare: The Ballad of El Goodo dei Big Star. Una volta passata la momentanea emozione (i Big Star per quelli della mia età sono stati un guilty pleasure coi fiocchi) mi sono chiesto da quale wormhole spaziotemporale fosse sbucata e perchè. Non ho tuttora avuto una risposta, fatto sta che però da fine estate i BC,NR l'hanno piazzata fissa nella scaletta dei loro concerti e quindi delle due l'una: o la playlist di Soliera l'hanno fatta loro oppure hanno scoperto la canzone quel dì e gli è rimasta talmente impressa da volerla coverizzare. Comunque, chi se ne frega di queste menate da nerd (anche se, fondamentalmente, un blog è proprio questo): l'altra sera a Milano il cortocircuito si è compiuto e ho potuto sentirgliela fare dal vivo. Forse è proprio il pezzo giusto per questi tempi balordi, col suo ritornello perfetto per farsi coraggio ("And there ain't no one going to turn me 'round, ain't no one going to turn me 'round" "E non c'è nessuno che mi farà cambiare idea, non c'è nessuno che mi farà cambiare idea"). E vabbè. Recensione della serata? Apertura col botto grazie ai Westside Cowboy da Manchester e la loro trascinante Britainicana (qualsiasi cosa sia, funziona): giovani, carichi a balestra ed ennesima controprova che gli anni novanta del secolo scorso non sono oggetto di revival, bensì un preludio ai suoni del qui e ora.
Che dire poi dei Black Country e della loro enciclopedia rock-pop-indie-folk-prog? Il mio equilibrio nel giudicarli è saltato in aria da mo' e di conseguenza posso solo esprimere sbrodolamenti da fan: oltre alla succitata cover e al disco nuovo eseguito come sempre per intero (rigorosamente in un ordine diverso ogni sera) , sono riemerse dal lavoro precedente Dancers e una Turbines/Pigs da portarsi a casa con tanto di "io c'ero". Non so cosa augurare a questi sei ragazzi palesemente innamorati del loro lavoro: avere il più ampio successo che secondo me meritano o diventare a loro volta un guilty pleasure per le generazioni future? Per ora me li tengo stretti e li ringrazio. Nessuno mi farà cambiare idea.mercoledì 30 luglio 2025
Paura 'e niente
Qualche tempo fa, in casa, mi si consigliava caldamente l'ascolto di un determinato disco ed io, dall'alto del mio patentino di UNICO CONOSCITORE DELLA MUSICA IMPORTANTE, non dico di aver snobbato il consiglio ma di averlo comunque - diciamo così - messo in fila con gli altri. Quando è giunto il suo turno, il disco in questione si è rivelato come me lo si dipingeva: un classico immediato. La musica popolare è fatta sia di lente affermazioni che di esplosioni abbacinanti: sicuramente dipende anche dalla predisposizione di chi ascolta, ma c'è qualcosa, nei grandi dischi, che li fa arrivare subito e li fa rimanere per sempre. Sarà il momento della creazione, saranno le circostanze, sarà quel che sarà: gli esempi sono molteplici. Per ovvi motivi, il ragionamento è chiaramente più applicabile alla singola canzone (i cosiddetti "successi") ma ogni tanto spunta fuori un intero album davanti al quale ci si ferma e ci si meraviglia ad ogni ascolto.
Flashback: giusto trent'anni fa, il 25 aprile, io e Marlo ci trovavavamo a Lemizzone di Correggio per il concerto Materiale Resistente. Al termine della performance dei nostri amici Yo Yo Mundi attaccò a piovere e le rimanenti esibizioni previste furono annullate. Siccome non volevamo tornare a casa ci dirigemmo in quel di Parma dove suonavano gli Almamegretta freschi del loro lavoro migliore: Sanacore, in cui dub e dialetto napoletano si fondevano in modo magistrale. Fu il mio primo serio sconfinamento partenopeo. Trent'anni dopo è arrivata La Niña.
Non cadrò nella trappola "la canzone napoletana si rinnova" perchè sarebbe ingiusto e limitativo, un po' come parlare di "cantautorato al femminile". Come? C'è chi ancora lo fa? E pazienza. Allora: il disco si chiama Furèsta ed è un progetto (chiedo scusa per la parolaccia) di Carola Moccia e Alfredo Maddaluno, che da un po' mescolano linguaggi, suoni, stili. A 'sto giro è venuta fuori una manciata di canzoni in cui sì, si canta in napoletano e sì, ci sono gli strumenti tradizionali locali abbinati all'elettronica, ma - si può dire? - chi se ne frega degli stereotipi fuorvianti: questo è un lavoro dal respiro universale. I pezzi (molti di breve durata, tutti strutturalmente semplici e con melodie che ti saltano addosso) sono uno più bello dell'altro, gli arrangiamenti e la produzione fatti apposta per cantare e/o zompare tarantolati (dài, consentitemene almeno uno, di cliché) e le armonie vocali sono l'asso di briscola: nel mio caso sono state la prima cosa che mi ha steso, riportandomi alla mente l'effetto che mi facevano certe voci bulgare di Goran Bregovic (dal vivo le suddette armonie sono rese alla perfezione grazie all'apporto delle tre cantanti-musicanti Francesca Del Duca, Lydia Palumbo e Denise De Maria). Ecco, anche se per gusto personale tenderei a non separare mai testi e musica, devo dire che le tematiche dei singoli brani contribuiscono a connotare ulteriormente ognuno di essi, creando un mondo in cui convivono i sentimenti e la denuncia sociale, il terremoto (quello fuori e quello dentro), gli animali (in primis gatte e gazze), la luce e l'oscurità. Chissà poi se volontariamente o no, ma La Niña ha dato vita ad un inno come Figlia d' 'a tempesta, in grado di scuotere le coscienze sulle tuttora presenti disparità di genere. Altro pezzo da novanta Guapparìa, tanto per ricordare che "i guappi non stanno per strada, stanno al governo". Non la manda a dire, La Niña, usando potentemente voce e tammorra per svegliarci dal torpore. Nel giro di un mese l'ho vista tre volte in concerto, mi ha rinfrescato la memoria ricordandomi il potere salvifico dell'arte - per chi la fa e per chi ne fruisce. Non è dato sapere come proseguirà il percorso artistico di questa splendida crew, ma una cosa è certa: Furèsta rimarrà sempre lì, sempre pronto a farsi ascoltare per insegnarci a non avere più paura di niente.
domenica 13 luglio 2025
It's an english thing
domenica 6 luglio 2025
Choses à faire à Paris pendant un orage
Ogni tanto mi faccio prendere dall'entusiasmo e mi butto senza vergogna. Sono viaggi spazio-temporali non adatti ad uno della mia età, ma tutto sommato il più delle volte ne esco bene. Per dire, l'altro giorno ad un certo punto mi son trovato a vagare per le vie sottostanti al Sacro Cuore di Parigi in cerca di uno straccio di spuntino vegetariano (non dico vegano perchè, insomma, en France oeufs et fromage fanno parte della formula chimica dell'aria da respirare) e, trovato uno squallido sandwich sono tornato alla mia destinazione iniziale. Qui la questione si fa interessante perchè la mia destinazione iniziale era fuori da Le Trianon, in fila assieme ad un mucchio di ragazze dell'età di mia figlia (la quale figlia era lì pure lei, altrimenti il mio atto sarebbe obbiettivamente apparso ancora più bizzarro) in attesa del concerto di Jasmine.4.t e Lucy Dacus. Come sono finito lì? La farò breve. più o meno dai tempi del lockdown (no, dai, giuro, la farò breve sul serio) ho scoperto una serie di nuovi artisti di cui mi sono infatuato, in una sorta di terza o quarta giovinezza "musicofila". Ecco una succinta lista, e non mi si prenda troppo per il culo perchè - si sa - al cuor non si comanda: Idles, Billie Eilish, Sleaford Mods, Dry Cleaning, Black Country, New Road, Wet Leg, Caroline Polachek, Courtney Barnett, Coma_Cose, Madame, English Teacher, eccetera. Lo snodo cruciale di questa mia ricaduta nel fanatismo è stato però uno in particolare: incuriosito da una o due cover buttate là (tipo Black boys on moped di Sinead O'Connor) mi sono avvicinato a Phoebe Bridgers e al suo disco Punisher. Boom. Una volta superato lo straniamento dovuto al fatto dell'ascoltare con gusto musica fatta da gente-che-potrebbe-essere-mia-figlia, da Punisher sono passato al resto della discografia e al vortice delle collaborazioni. La più importante di queste ultime è senz'altro il progetto Boygenius assieme a Julien Baker e, appunto, Lucy Dacus. Il briciolo di spirito critico residuo mi consente ancora di avere contezza di cosa mi piaccia di più o di meno: per esempio, all'interno dell'universo Boygenius l'ultimo Dacus è buono ma non come i precedenti, mentre l'album di Jasmine 4.t. (una produzione del trio) mi è parso notevole e son stato ben contento di apprezzarne una buona parte dal vivo in qualità di opener. Gran bel doppio concerto, dunque: sono ovviamente emerse fra un pezzo e l'altro le recenti tematiche sociopolitiche che scuotono il nostro piccolo misero mondo e, pur condividendo in toto le posizioni espresse sopra e sotto al palco, non sono stato condizionato nel godere dell'aspetto prettamente artistico. Sarà anche il solito indie-alternative-pop-folk-rock che ascolto da sempre, ma il trasporto con cui lo interpretano le giovani generazioni scalda il cuore. E così si esce leggeri da Le Trianon, buttandosi nell'aria fresca di una Parigi appena attraversata da una tempesta, con in testa ancora il finale di Night Shift, miracoloso mantra lenitivo per cuori infranti eseguito come da prassi a chitarre sguainate e ugole oltre il muro del suono.
You got a 9 to 5, so I'll take the night shift
And I'll never see you again if I can help it
In five years I hope the songs feel like covers
Dedicated to new lovers
Lucy Dacus, "Night Shift"
sabato 7 giugno 2025
Sarà l'aria di Duluth
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| le foto sono di Elisa Magnoni (lostingroove) |
sabato 31 maggio 2025
Graffette
I Pavement mi hanno accompagnato lungo tutti gli anni novanta. Letteralmente: li ho visti la prima volta a Cesena di supporto ai Sonic Youth nel 1992 e l'ultima volta nel 1999 al Velvet di Rimini. Detta così sembra che si stia parlando di un gruppo indie romagnolo e invece erano mmerecani fino al midollo, tant'è che all'inizio li avevo sottovalutati nonostante l'hype ("Ma dài, 'sta roba l'hanno già fatta i Velvet Underground venticinque anni fa!"). Poi, però, mi sono arrivate LE CANZONI, da Summer babe a Here, da Cut your hair a Range life, eccetera, eccetera. Da alfieri inizialmente del cosiddetto lo-fi (movimento fondamentale ma che ha generato anche un bel po' di munnezza non riciclabile) ad ultimi rappresentanti del rock delle origini - sì, compresi gli assoli di chitarra, caricaturali e parossistici ma allo stesso tempo genuini e carichi a balestra. E poi ovviamente il cantato di Stephen Malkmus, sempre sul punto di prenderti per il culo e invece pieno di sincero trasporto emotivo, in grado di farti ridere e piangere allo stesso tempo. Li ho vissuti con nostalgia in tempo reale, non so se riuscirò a spiegare la cosa decentemente: ha a che fare un po' con ragioni mie anagrafiche (la fin troppo lunga adolescenza stava volgendo al termine) e un po' perchè anche loro, secondo me, si rendevano ben conto di incarnare la fine di un mondo: quello pre-internet, pre-social, in cui tutto pareva più semplice, più netto, con un orizzonte ben visibile nella sua limitatezza (sarò banale, ma mi sembrava un mondo molto sovrapponibile a quello di "The Truman Show", altro caposaldo della cultura pop fine novanta). Ci si apprestava a cambiare pelle, insomma, senza sapere cosa si sarebbe diventati: ora che lo sappiamo, aneliamo disperatamente al tornare indietro fino ad una presunta innocenza perduta (spoiler: non è mai esistita). Così, in questi tempi confusi, sono tornati persino i Pavement: col meta-film "Pavements" e nel riflusso della rete con b-sides diventate inaspettatamente virali (Harness your hopes). In realtà - si può dire? - non se ne erano mai andati, come tutto ciò a cui ci si aggrappa (inutilmente) dentro al vorticante tornado in cui ci è dato di vivere. Ah, da qualche parte ho ancora una delle graffette che il loro primo batterista (l'indimenticato Gary Young) distribuiva all'ingresso dei concerti: forse lui aveva proprio capito tutto e prima o poi - chissà - quella graffetta finirà col salvarmi la pelle.















